Pubblicato il 14 Agosto 2025
Arena di Verona - Diamo conto di una ''prima'' e due repliche dei rispettivi titoli vediani
Rigoletto, Nabucco e Aida servizio di Nicola Barsanti

20250814_Vr_00_Rigoletto_phEnneviFotoVERONA - L’anfiteatro Arena, con i suoi duemila anni di storia e le gradinate che custodiscono memoria e suggestione, si conferma il più imponente palcoscenico a cielo aperto dedicato all’opera lirica. Ogni estate l’antico anfiteatro romano si trasforma in una cassa armonica naturale, dove le note dei grandi compositori si fondono con l’energia collettiva di migliaia di spettatori, dando vita a un’esperienza unica. In questa recensione ci soffermeremo sulle repliche di tre capolavori verdiani che incarnano l’essenza del melodramma italiano: Rigoletto, Nabucco e Aida, opere in cui si intrecciano passione, conflitto, destino e catarsi.

Rigoletto
Tra i titoli più amati del repertorio verdiano, Rigoletto approda ancora una volta sul palcoscenico dell’Arena di Verona, suggellando il cartellone del 102° Opera Festival con la forza drammatica e musicale di un’opera che da sempre divide, emoziona e sorprende. La sera dell'8 agosto è stata la "prima" di una "ripresa"per questo titolo. Ecco com'è andata:
Quando Verdi riceve nel 1850 la commissione di un nuovo lavoro per il Teatro La Fenice di Venezia, la scelta del soggetto si rivela subito problematica. Il librettista Francesco Maria Piave propone infatti di trarre ispirazione dal dramma di Victor Hugo "Le roi s’amuse", che racconta le vicende del buffone di corte Triboulet e del suo signore dissoluto, Francesco I di Francia. La censura austriaca, che domina i teatri del Lombardo-Veneto, vede con sospetto ogni accenno a figure regali screditate e a passioni dirompenti, imponendo a Verdi e Piave un fitto lavoro di adattamento. Nasce così Rigoletto, ambientato a Mantova e non più alla corte di Francia: un “buffone di corte” deforme e tragico che, dietro il sorriso amaro, cela l’angoscia di un padre e l’impotenza dell’uomo di fronte al destino.

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La regia di Ivo Guerra riprende la storica messinscena concepita nel 1928 da Ettore Fagiuoli, che firmò il debutto areniano del tenore Giacomo Lauri Volpi, sotto la direzione artistica di Giovacchino Forzano.
Ivo Guerra già nel 2003 ne aveva curato la ripresa, e oggi la ripropone con lievi adattamenti, conservandone però lo spirito originario. Il pubblico è così trasportato in un impianto scenico che esalta i canoni della tradizione: quinte dipinte e architetture di gusto rinascimentale, che evocano con immediatezza i luoghi del libretto - dal palazzo del Duca di Mantova alla locanda di Sparafucile - senza cedere a eccessi modernizzanti. L’Arena si trasforma così in un immenso teatro all’antica, dove lo spazio monumentale amplifica l’efficacia della narrazione.
La mano di Raffaele Del Savio rende le scene vive e suggestive, arricchite dai costumi sontuosi di Carla Galleri e dalle luci di Claudio Schmid, efficacissime soprattutto nella tempesta del quarto atto: il buio squarciato dai lampi trasforma il dramma in una vera apocalisse visiva e sonora.
La scelta di una regia tradizionale dunque, fedele all’ambientazione rinascimentale voluta da Verdi, restituisce al dramma la sua forza visiva ed emotiva senza sovrastrutture concettuali. Le scene fastose, i costumi sontuosi e la chiarezza narrativa creano un’atmosfera che conquista immediatamente il pubblico.
Critici e spettatori concordano: questa produzione dimostra come la tradizione, quando è realizzata con rigore e qualità, sappia ancora entusiasmare. I commenti positivi si moltiplicano, sottolineando la capacità dell’allestimento di restituire la potenza teatrale di Verdi e la suggestione unica di un anfiteatro che, sotto le stelle, continua a trasformarsi nel più grande tempio dell’opera lirica.
Venendo al cast, il Duca di Mantova vede il debutto areniano di Pene Pati, artista dalla bella presenza scenica che riesce a tratteggiare un duca affascinante, ma dalla resa vocale altalenante. Nei centri la voce è ampia e corposa, mentre gli acuti - in particolare in "Parmi veder le lagrime" e "La donna è mobile"  - risultano faticosi e poco fluidi. Una prova non memorabile, che tuttavia lascia intravedere potenzialità per il futuro.
Ludovic Tézier, subentrato al previsto Amartuvshin Enkhbat, si conferma ancora una volta una grande voce verdiana. Lo smalto brunito e il timbro omogeneo in tutta la gamma, uniscono potenza e duttilità espressiva: l’emissione è sempre piena e controllata, il fraseggio scolpito con eleganza e il dominio stilistico ineccepibile. Il risultato è un Rigoletto di vibrante ambiguità, in bilico costante tra sarcasmo amaro, fragilità paterna e furia vendicativa.
Nel duetto con Gilda, “Figlia! Mio padre!”, Tézier plasma la linea vocale con morbidezza e accenti di struggente tenerezza, restituendo tutta la dimensione umana di un uomo diviso fra l’amore per la figlia e l’odio per la società che lo schiaccia. Diversamente, nell’invocazione finale “Ah, la maledizione!”, la voce si fa cupa, metallica, quasi lacerata, sottolineando il precipitare del destino e imprimendo al finale un carattere di tragica inevitabilità.
Nina Minasyan (Gilda), affronta con coraggio l’immensità dell’Arena. Il suo strumento, lirico e non troppo ampio, riesce comunque a emergere con eleganza: "Caro nome" è intonato con grazia e precisione, mentre i momenti drammatici - dal rapimento al sacrificio finale - la vedono intensa e credibile.
Gianluca Buratto offre uno Sparafucile da manuale: la sua voce cavernosa e profondamente proiettata domina ogni intervento, in particolare il duetto con Rigoletto, "Quel vecchio maledivami!", e la scena finale, dove il suo timbro scuro rende palpabile il presagio di morte.
Martina Belli, al debutto areniano, veste i panni di Maddalena con freschezza scenica e sensualità marcata: la sua voce calda si integra perfettamente nel celebre quartetto £Bella figlia dell'amore", in cui ogni linea melodica si intreccia in un equilibrio mirabile.
Di rilievo anche i comprimari: Agostina Smimmero (Giovanna) accompagna con sensibilità, Abramo Rosalen presta nobile dignità al Conte di Monterone, Nicolò Ceriani (Marullo) e Matteo Macchioni (Borsa) donano vivacità alle scene di corte.
Francesca Maionchi impreziosisce la parte della Contessa di Ceprano, mentre Ramaz Chikviladze e Elisabetta Zizzo completano con professionalità il quadro nei ruoli dell’ Usciere e del Paggio.
Sul podio il giovane direttore Michele Spotti si distingue per energia e chiarezza. La sua lettura è incalzante ma mai eccessiva, capace di far emergere i contrasti della partitura: dalla tensione drammatica del preludio alla delicatezza dei duetti. L’orchestra risponde con compattezza e dinamiche sempre equilibrate, senza mai soverchiare le voci. L’esecuzione si mantiene dunque in piena coerenza con l’impostazione tradizionale di regia e scene, rinunciando al consueto acuto di tradizione (il Si bemolle) che Rigoletto spesso esegue alla fine del duetto con Sparafucile, in chiusura del primo quadro del primo atto.
Fondamentale, come di consueto, il contributo del Coro dell’Arena, preparato ottimamente dal maestro Roberto Gabbiani, che dà vita a masse sonore coese e penetranti.
Il risultato è uno spettacolo che emoziona e convince, suggellato dagli applausi convinti di un pubblico che, sotto le stelle di Verona, continua a vivere il melodramma come un rito collettivo e senza tempo.

Nabucco
L’unica differenza rispetto alla serata inaugurale riguarda un problema tecnico: le semisfere presenti sul palco, concepite per muoversi e unirsi nel finale, rimangono statiche, limitandosi a illuminarsi senza compiere la prevista trasformazione scenica. Per la regia e le scene si rinvia alla cronaca della serata inaugurale che potete trovare qui; ciò che in questa sede merita rilievo è la dimensione musicale ed esecutiva, capace di imprimere ancora una volta un segno profondo.
Luca Salsi,  affronta il ruolo del titolo con una vocalità salda e proiettata, appoggiata su una colonna d’aria costante che gli consente un legato nobile e un fraseggio terso nelle sezioni declamatorie dei primi atti. La linea resta sempre ben “coperta” in zona di passaggio, con centri corposi e acuti messi con sicurezza, senza mai forzare la maschera. Nella grande pagina del quarto atto, “Dio di Giuda!”, il controllo rimane esemplare (fiati misurati, smorzature a fuoco, dinamiche calibrate), ma l’accento non si abbandona mai davvero al lato contemplativo e lacerato della preghiera: l’eloquenza è impeccabile, l’emozione arriva filtrata. Ne risulta un Nabucco regale, scolpito e stilisticamente pulito, cui giova però un surplus di rischio espressivo per trasformare la supplica in autentica ferita sonora.
Francesco Meli, nel ruolo di Ismaele beneficia di una scrittura centrale comoda che ne valorizza il timbro luminoso. Nel duettino del I atto con Fenena e nelle successive pagine d’assieme, la linea di canto scorre sul fiato con naturalezza, il passaggio è elegantemente mascherato e gli attacchi sono sempre nitidi. Il tenore predilige un’emissione “in avanti” di cristallina chiarezza, evitando ogni enfasi verista: l’accento resta cavalleresco ma lirico, con legature morbide e puntuali appoggi sulle parole chiave (senza sforzo né spinta). Nei concertati, l’impostazione resta esemplare: proiezione omogenea, intonazione salda, squillo misurato quando serve emergere dal coro e dall’orchestra.

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Alexander Vinogradov impersona il pontefice ebreo Zaccaria dando prova di possedere uno strumento autenticamente 'sacrale'. Nella sortita “D’Egitto là sui lidi” scolpisce arcate ampie, sostenute da un appoggio granitico e da un grave risonante, mai opaco; il registro centrale è omogeneo, tornito, e la proiezione si espande senza sforzo nello spazio areniano. In “Tu sul labbro de’ veggenti” la tavolozza dinamica si fa più sottile: smorzature ben timbrate, mezzevoci a fuoco, autorevolezza mantenuta anche nel piano. L’articolazione sillabica resta chiara (ottima dizione), il fraseggio assume quell’autorevolezza profetica che Verdi intende al cuore della drammaturgia, e le cabalette sono condotte con saldo senso del ritmo, senza secchezza.
Olga Maslova (Abigaille) sorprende per l’assetto tecnico completo richiesto da un ruolo 'ibrido' tra drammatico d’agilità e spinto; in “Anch’io dischiuso un giorno” dosa con intelligenza la morbidezza del cantabile (filati ben sospesi, legature pulite) e una gestione del registro di petto sempre connessa al centro, mai scollata, mai gridata. Nella cabaletta “Salgo già del trono aurato” sfoggia agilità sillabate nette, salti intervallari messi con precisione e acuti estremi centrati a pieno fuoco, senza perdere qualità timbrica. Nel finale, “Su me… morente esanime”, il colore si fa crepuscolare: la cantante lima il metallo dell’emissione, lavora di mezzevoci e smorzature che restituiscono una donna vinta e finalmente umana. È una lettura che rifiuta lo strillo e le sgrammaticature espressive: il carattere è feroce ma scolpito nel canto, non nel gesto.
Anna Werle offre una Fenena di velluto: centri rotondi, risonanze calde, una linea che predilige il legato 'sul fiato'. Nel terzettino del primo atto la voce si incastra con eleganza nelle trame orchestrali senza perdere presenza; nell’aria “Oh dischiuso è il firmamento” costruisce un arco espressivo coerente, con dinamiche ben sfumate, puntuali portamenti e apici sonori controllati (mai spinti). Il personaggio guadagna una dimensione di pietas sincera e musicale, sostenuta da un’emissione sempre pulita e da un fraseggio sobrio ma partecipe.
Completano con professionalità Gabriele Sagona (Gran Sacerdote di Belo), Matteo Macchioni (Abdallo) ed Elena Borin (Anna).
L’equilibrata direzione del maestro Pinchas Steinberg imposta tempi sostenuti ma mai vertiginosi, arie e cabalette respirate con naturalezza, e un rapporto buca/palco in cui la tessitura vocale rimane costantemente rispettata.
Il coro,  ben preparato dal maestro Roberto Gabbiani - quando irrompe con “Va, pensiero” - trova terreno ideale: sostegno orchestrale morbido, tappeto armonico compatto e parola scolpita, così che le voci soliste possano emergere e rientrare con plasticità musicale. Tuttavia, proprio in questo celeberrimo brano si avverte una certa sobrietà di approccio: l’esecuzione rimane impeccabile e disciplinata, ma priva di quel soffio emozionale capace di trasformare il coro in un momento collettivo di sospensione lirica. Non stupisce dunque che il pubblico, pur attento e partecipe, non abbia invocato il tradizionale bis: segno che la resa, pur corretta e levigata, non ha travalicato il piano dell’esecuzione per approdare a quello dell’emozione condivisa.

Aida
Chiude questa triade verdiana Aida, riproposta nella visione di Stefano Poda, già inaugurale del 2023 (qui la recensione).
Venendo subito al cast, dopo il forfait di Anna Netrebko è Maria José Siri a interpretare Aida, imponendosi come protagonista di grande presenza scenica e solidità vocale. La sua voce, di natura lirico-spinta, si adatta con naturalezza alla scrittura verdiana: gli acuti sono sicuri e luminosi, il registro centrale ha corpo e omogeneità, mentre i pianissimi svelano un controllo raffinato che dona poesia al personaggio. In “O patria mia” emerge la parte più intima del suo canto, fatto di mezzevoci delicate e linee scolpite con cura, capaci di restituire la malinconia e la nostalgia dell’eroina etiope. La sua Aida è insieme fiera e vulnerabile, mai sopra le righe: Siri preferisce un fraseggio sobrio, senza eccessi, riuscendo così a delineare una figura credibile e complessa, divisa tra amore e destino.

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Yusif Eyvazov (Radamès) apre la serata con un “Celeste Aida” risolto con correttezza tecnica: l’attacco non concede smagliature, l’emissione è sostenuta con solidità, e la salita all’acuto, pur non smaltata nel timbro, si impone per sicurezza e proiezione. Il suo timbro, ruvido e personale, divide inevitabilmente i gusti, ma possiede una riconoscibile identità che dà colore al personaggio. Nei duetti con Aida si apprezza una linea di canto convincente, capace di flettersi alle necessità drammatiche, e la sua presenza scenica, virile e tormentata, rende credibile il dissidio del condottiero lacerato tra onore e amore.
Nel ruolo di Amonasro, Youngjun Park scolpisce un ritratto autorevole, basato su un fraseggio cesellato e su un legato di grande precisione. La sua voce baritonale, pur priva di eccessi roboanti, è sempre centrata e ben timbrata, con accenti che restituiscono la fierezza paterna senza indulgere nella declamazione sopra le righe. Nell’incontro con Aida “Rivedrai le foreste imbalsamate” emerge un equilibrio ammirevole: l’autorevolezza del padre non cancella la sfumatura affettiva, creando una tensione emotiva tanto più intensa quanto più trattenuta.
Simon Lim (Ramfis) impone la sua presenza fin dal primo ingresso: il registro grave, sonoro e ben proiettato, conferisce al gran sacerdote un’aura imponente, quasi ieratica.
A completare il cast, Riccardo Rados presta al Messaggero una vocalità chiara e ben timbrata, con dizione nitida che lo rende incisivo anche nella breve parte, mentre Francesca Maionchi, nella Sacerdotessa, illumina la scena con il suo timbro luminoso e una linea di canto pulita, capace di dare rilievo a un ruolo spesso trascurato, ma che qui acquisisce presenza e dignità scenica.
Sul podio, il maestro Daniel Oren guida l’orchestra con gesto sicuro e saldo nel solco della tradizione. Il suo approccio mira alla chiarezza e alla scorrevolezza: i grandi blocchi sonori si dispiegano senza forzature, i concertati sono bilanciati con attenzione alla parola e al respiro dei cantanti. Non ricerca effetti spettacolari o personalismi interpretativi, ma esalta la solidità del dettato verdiano, mantenendo costante equilibrio tra buca e palco. Nelle grandi pagine corali - "Gloria all’Egitto” e il finale del secondo atto - l’orchestra si apre in tutta la sua potenza, senza mai sovrastare le voci, mentre il Coro guidato da Roberto Gabbiani conferma ancora una volta compattezza, precisione e varietà di colori, trasformando i momenti corali in autentiche epifanie sonore.ù

Possiamo dunque affermare che Il Festival 2025 conferma l’Arena come luogo unico al mondo, dove la potenza della musica verdiana incontra lo spazio monumentale di un anfiteatro romano. Rigoletto rinnova la tradizione con eleganza, Nabucco stimola riflessioni sul tempo e sul potere attraverso immagini simboliche, Aida fonde intimità e grandiosità con forza visiva e musicale. Tre serate che celebrano l’opera come patrimonio culturale e identitario dell’Italia, suggellate da applausi convinti e da un pubblico che gremisce le gradinate in un rito collettivo che, dopo oltre un secolo, non smette di emozionare. Viva l’Italia, viva l’opera, viva Verdi!
(Le recensioni si riferiscono rispettivamente alle recite del 8, 9 e 10 agosto 2025)

Nella miniatura in alto: _
Sotto, in sequenza, belle immagini di Ennevi Foto sugli spettacoli qui recensiti





Pubblicato il 31 Luglio 2025
Arena Opera Festival 2025 ecco il resoconto delle attese repliche dentro l'anfiteatro veronese
Nabucco Carmen La traviata servizio di Angela Bosetto

20250731_Vr_00_Nabucco_StefanoPodaVERONA – Anna Netrebko, Anita Rachvelishvili e Rosa Feola, ovvero Abigaille, Carmen e Violetta Valéry. Sono loro le tre grazie musicali che, dal 17 al 19 luglio 2025, hanno acceso l’Arena, rendendo ciascuna rappresentazione meritevole di grande interesse in virtù della propria peculiarità. Per il soprano russo si trattava del debutto italiano come figlia adottiva di Nabucco (ruolo affrontato in forma di concerto al Festival Internazionale di Maggio di Wiesbaden nel 2023 e in versione scenica alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino nel 2024); per il mezzosoprano georgiano dell’unica recita stagionale nei panni della celebre sigaraia (che l’ha lanciata in tutto il mondo sin dall’esordio scaligero, datato 2009); e per il soprano casertano della prima Traviata areniana, a sessant’anni esatti dalla prima Violetta veronese di Renata Scotto, che di Rosa Feola è stata maestra e mentore.

20250731_Vr_01_Nabucco_AmartuvshinEnkhbat_phEnneviFotoNABUCCO – 17 luglio
In omaggio alla venuta della Diva, l’unica differenza che l’allestimento di Stefano Poda presenta rispetto all’inaugurazione (qui la recensione) è il costume di Abigaille. “L’umil schiava” (che diventerà, seppur per poco, regina) sfoggia dunque la stessa mise delle amazzoni (un po’ ancelle, un po’ guardie, un po’ proiezioni del personaggio stesso) che la accompagnano, completa di frusta, tacchi vertiginosi, cappuccio (adorno prima di cotta di maglia e poi di un’aureola in stile Tron), lunghi guanti e corsetto a metà fra il sadomaso e il fantascientifico. Per quanto l’effetto Mortal Kombat sia dietro l’angolo, Anna Netrebko è Anna Netrebko e – al momento – non c’è mise che possa metterla in difficoltà. Entra in scena come una leonessa (“Prode guerrier!”), domina il terzetto (“Io t’amava”), svetta con ferocia nel concertato che chiude la prima parte (“Questo popol maledetto”), dipana un filo rosso fra Abigaille e Lady Macbeth (“Salgo già del trono aurato”) e ribatte colpo su colpo nel duetto con il padre (dove, per capire la caratura artistica del soprano, basterebbe soffermarsi sul disprezzo distillato nella frase “Perfida! Si diede al falso Dio!”).

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Tuttavia, i momenti in cui la sua Abigaille tocca davvero il cuore sono quelli più commoventi, dal languore di “Anch’io dischiuso un giorno” (sul passaggio “Chi del perduto incanto/Mi torna un giorno sol?” la sua voce è galleggiata sopra l’Arena come una piuma) alla supplica “Su me morente, esanime”, intonata indossando la stessa candida veste che (accordandosi a quella delle bimbe legate ai ricordi passati) ne sancisce il ritorno a una sorta di infantile innocenza.
Su Amartuvshin Enkhbat (Nabucco) si rischia di diventare ripetitivi perché pare che, baritonalmente parlando, non abbia limite. Se la regia gli fa salire e ridiscendere l’intera parete dell’anfiteatro prima ancora di iniziare a cantare, lui lo fa e, appena arrivato sul palco, attacca “Di Dio che parli?” come se fosse appena uscito dal camerino. Macina recite su recite, eppure la bellezza del colore, la nobiltà del timbro e la cura del fraseggio non ne risentono. Non si capisce come faccia o che patto soprannaturale abbia firmato, ma, qualunque divinità sia coinvolta, che ce lo conservi.
Se con Abigaille/Netrebko il palleggio è alla pari e la coppia innamorata (Galeano Salas/Ismaele e Francesca Di Sauro/Fenena) si difende onorevolmente in virtù di due voci fresche ed eleganti, a uscire malconcio dal confronto con il re babilonese è lo Zaccaria di Christian Van Horn, avaro di sfumature e carente nella zona grave.

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Puntuali gli interventi di Gabriele Sagona (Gran Sacerdote di Belo), Carlo Bosi (Abdallo) e Daniela Cappiello (Anna).
Fin troppo misurata la direzione di Pinchas Steinberg: sostanzialmente corretta e votata alla dimensione cantabile, ma priva di picchi emotivi e autentici palpiti. Palpiti che, invece, non mancano certo al Coro, preparato da Roberto Gabbiani.
Applausi per tutti e prevedibile ovazione per Anna Netrebko, l’ultima vera diva del melodramma.

20250731_Vr_07_Carmen_AnitaRachvelishvili_phEnneviFotoCARMEN  – 18 luglio
Orgogliosamente in scena da trent’anni, l’allestimento di Franco Zeffirelli (sapientemente vestito dalla fedele Anna Anni) è divenuto sinonimo areniano dell’opera di Georges Bizet. Quest’estate, inoltre, al “compleanno” dello spettacolo (che, nel luglio 1995, segnò il debutto nell’anfiteatro veronese del regista e scenografo fiorentino) si unisce il centocinquantesimo anniversario di Carmen, rappresentata per la prima volta all’Opéra-Comique di Parigi il 3 marzo 1875. Per quanto, a ogni edizione del festival lirico estivo, si versino fiumi d’inchiostro (anche se ora forse sarebbe più corretto dire “si producano giga di materiale”) per sottolineare quanto questo allestimento sia “vetusto, polveroso, superato, ecc”, la Carmen zeffirelliana (irrobustita dalla presenza della Compañía Antonio Gades) resta una di quelle proposte in grado di riempire ed entusiasmare sempre l’anfiteatro.
Sul podio, Francesco Ivan Ciampa garantisce la giusta combinazione di energia, lirismo e raffinatezza, al pari del Coro, diretto da Roberto Gabbiani. Menzione doverosa anche alle Voci Bianche A.Li.Ve., istruite da Paolo Facincani, che (a meno di non essere Erode) è difficile non trovare adorabili.

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Il comprimariato areniano continua a mantenersi su alti livelli, a partire dall’eccellente Moralès di Giulio Mastrototaro, che si fa ricordare a dispetto del poco tempo concessogli dalla partitura dell'opera.
Solido e affidabile lo Zuniga di Gabriele Sagona, ben affiatato e musicalmente adeguato il quartetto fuorilegge, composto da Daniela Cappiello (Frasquita), Sofia Koberidze (Mercédès), Carlo Bosi (Remendado) e Jan Anten (Dancairo).
Alexander Vinogradov è un Escamillo stentoreo e sicuro di sé, forse poco guascone ma comunque autorevole. Diciamo più un capitano del popolo che uno sfrontato idolo delle folle.
Per lucentezza timbrica, accorato lirismo e sensibilità interpretativa, Mariangela Sicilia può iscriversi senza dubbio fra le interpreti ideali di Micaela, ruolo che la accompagna con meritato successo da anni.
Convocato per una sostituzione last minute, Freddie De Tommaso delinea un Don José d’altri tempi, confermando la grande bellezza del proprio strumento e la propensione per una resa interpretativa “all’antica”, molto apprezzata in una culla di tradizione come l’Arena.
Arrivati a Carmen, tagliamo la testa al toro (giusto per restare in tema corride): Anita Rachvelishvili è una grande artista e l’anfiteatro la festeggia giustamente come tale. Se da un lato non si può obiettare sul fatto che sappia tratteggiare sempre la gitana in modo ammirevole, dall’altro bisogna anche riconoscere che la sua attuale vocalità la sta portando verso una direzione più drammatica.
Pubblico entusiasta e particolarmente generoso nel dispensare applausi ai vari interpreti.

20250731_Vr_13_LaTraviata_SperanzaScappucci_phEnneviFotoLA TRAVIATA  – 19 luglio
Salvo una piccola pausa per alcune gocce di pioggia, La traviata secondo Hugo De Ana, ancora una volta, fila spedita verso il suo tragico finale, rapendo il pubblico areniano e spingendo altre generazioni di spettatori a esclamare “Mi si sono aggrovigliate le budella” (il film Pretty Woman docet).
L’ultima recita diretta da Speranza Scappucci (che regala al pubblico una concertazione ancora più morbida, delicata e intima) schiera un cast di comprimari quasi invariato rispetto alla prima del  27 giugno scorso (qui la recensione) e quindi implica una ripetizione di giudizio. L’unico cambiamento “di spalla” è l’arrivo di Nicolò Ceriani (veterano Barone Douphol) e il passaggio di Gabriele Sagona a Dottor Grenvil.
A sorpresa, torna, nel ruolo di Alfredo Germont, il tenore Galeano Salas, il quale sostituisce all’ultimo momento l’annunciato (e indisposto) Dmitry Korchak e porta a casa la recita con apprezzabile professionalità, al netto di una comprensibile stanchezza, che lo rende meno estroverso e gli fa pasticciare l’inizio di “Parigi, o cara”.

20250731_Vr_15_LaTraviata_LucaSalsiRosaFeola_phEnneviFoto20250731_Vr_16_LaTraviata_GaleanoSalasRosaFeola_phEnneviFoto20250731_Vr_17_LaTraviata_RosaFeola_phEnneviFoto

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Nei panni di Giorgio Germont, il baritono Luca Salsi sa come offrire un’autentica lezione di canto sulla parola, modellando accenti e intenzioni con tutta l’esperienza da verdiano di razza.
Ma la regina della serata (e potrebbe essere altrimenti?) è la fulgida e applauditissima Violetta Valéry di Rosa Feola. Filati e colorature impeccabili, espressività emozionante, intelligenza recitativa e scavo psicologico del personaggio da manuale: da qualche parte, Renata Scotto sta sorridendo.

Crediti fotografici: Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il regista Stefano Poda
Nella miniatura per Nabucco: Amartuvshin Enkhbat
Sotto, in sequenza: Anna Netrebko (Abigaille) tre pose, tre costumi, tre situazioni; Christian van Horn (Zaccaria) Anna Netrebko e Francesca Di Sauro (Fenena); Anna Netrebko e il Coro di Voci bianche
Nella miniatura per Carmen: Anita Rachvelishvili
Sotto, in sequenza: Freddie De Tommaso (
Don José
); Mariangela Sicilia (Micaela); Anita Rachvelishvili (Carmen): Daniela Cappiello (Frasquita), Alexander Vinogradov (Escamillo), Sofia Koberidze (Mercédès); saluti finali del cast di Carmen
Nella miniatura per La traviata: la direttrice d'orchestra Speranza Scappucci
Sotto, in sequenza; Galeano Salas (Alfredo Germont), Rosa Feola (Violetta Valéry), Luca Salsi (Giorgio Germont); Luca Salsi e Rosa Feola; Galeano Salas e Rosa Feola; Rosa Feola durante il "Brindisi"





Pubblicato il 01 Luglio 2025
In Arena allestimento e drammaturgia sono in contrasto a dispetto proprio di Verdi e Ghislanzoni
L'Aida di cristallo č tornata servizio di Simone Tomei

20250701_Vr_00_Aida_DanielOren_phEnneviFotoVERONA - Quando l’Aida di Giuseppe Verdi risuona all’Arena di Verona non si tratta di una semplice replica, è un rito collettivo, un appuntamento simbolico che scandisce il calendario della lirica estiva. Questa nuova ripresa dell’allestimento firmato da Stefano Poda, definito “di cristallo” per le sue trasparenze e gli inediti giochi di luce, ha riaperto il sipario per una visione che, a distanza di due anni dalla sua prima comparsa, non solo conferma le mie impressioni passate ma le amplifica. Non tanto per l’impatto visivo – che resta imponente – quanto per una riflessione più profonda: quella sulla reale funzionalità di questa messinscena rispetto al cuore pulsante dell’opera verdiana.
Verdi concepì Aida non solo come spettacolo monumentale, ma come un dramma umano universale. Composta per l'inaugurazione del Canale di Suez, su libretto di Antonio Ghislanzoni, l'opera è un magnifico affresco storico-leggendario, ma è soprattutto un dramma di passioni universali – amore, gelosia, dovere e tradimento – intessuto in una partitura di straordinaria ricchezza armonica e melodica. La sua musica, vera forza motrice della narrazione, alterna la grandiosità dei cori e delle scene trionfali alla delicatezza delle arie più intime, bilanciando costantemente la magnificenza esteriore con l'introspezione psicologica dei personaggi.
La musica non accompagna il testo, lo scolpisce: ne è struttura, ossatura, sangue.
Ed proprio qui, nel delicatissimo equilibrio tra forma e sostanza, il progetto scenico di Poda si rivela affascinante ma problematico. Siamo di fronte a un’esperienza visiva stupefacente: luci taglienti che scolpiscono lo spazio, costumi che richiamano l’haute couture, masse sceniche imponenti e una simbologia esoterica che domina ogni quadro. Tutto è portato all’estremo, pensato per abbagliare, per “stordire” l’occhio dello spettatore. Poda costruisce una sorta di “parafilm lirico”, visivamente magnetico, ma spesso drammaturgicamente astratto, con quelle "interazioni misteriose" tra i personaggi e il "viaggio dantesco" dei quattrocento artisti in scena che, pur ammaliando, si discostano dalla chiara linea drammaturgica verdiana. La drammaturgia, nel senso più profondo, sembra quasi inesistente in questa concezione, vivendo esclusivamente nella mente del suo creatore.
Ed è qui che sorge l’interrogativo: questa estetica abbagliante, pur nella sua genialità, serve davvero la musica di Verdi o finisce per metterla in secondo piano?
Perché Aida, più di tante altre opere, vive di profondità psicologica, di chiaroscuri interiori, di tensioni drammatiche che devono trovare nella scena un riflesso coerente. Quando la regia diventa autoreferenziale e preponderante nella sua simbologia astratta, la musica rischia di diventare mero commento sonoro – e quella di Verdi non è musica di sfondo: è protagonista. L'allestimento, pur riempiendo l'Arena e collezionando record, a mio avviso, non riesce a restituire la profondità e la forza espressiva della partitura verdiana.
Fortunatamente il fronte musicale ha retto con soddisfacente solidità. Va sottolineato che la serata è stata una delle più calde e afose mai registrate a Verona, rendendo la performance di artisti e addetti ai lavori ancora più encomiabile.

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Maria José Siri, nel ruolo del titolo, si conferma interprete di spessore. La sua vocalità, intrinsecamente adatta all'ampiezza dell'emiciclo areniano, attraversa la complessa partitura con precisione e un'uniformità timbrica ammirevole. I gravi sono scolpiti ma naturali, gli acuti potenti ma mai forzati, e i momenti più lirici sono resi con un canto smorzato, quasi filato, restituendo con intensità le intime emozioni della giovane schiava. Siri sa "stare in scena" ma il suo personaggio sembra talvolta imprigionato nella griglia visiva imposta dalla regia.
Luciano Ganci, nei panni di Radamès, ha offerto una prova di grande sensibilità interpretativa. Il tenore ha privilegiato un approccio che esalta l'aspetto più sentimentale del personaggio rispetto a quello eroico, conferendogli una dimensione umana e toccante. La sua voce, dal timbro oggettivamente bello e caldo, ha dominato la partitura con un fraseggio elegante e una linea di canto fluida, dimostrando una notevole capacità di esprimere le sfumature emotive richieste dal ruolo.
Eccellente l’Amneris di Anna Maria Chiuri che ha dipinto il personaggio con una tavolozza psicologica e vocale ricchissima: dalla dolcezza amara del secondo atto alla furia disperata dell’ultimo, ha dominato la scena con carisma e autorevolezza, fino a farmi pensare – con un sorriso – che l’opera si sarebbe potuta intitolare proprio “Amneris”. Il suo personaggio trova tutte le sfumature psicologiche e vocali necessarie, partendo con accenti morbidi e ben calibrati per poi spingere l'acceleratore già nel secondo atto e concludere da grande leonessa nella scena finale del quarto atto, dove si erge a protagonista assoluta con padronanza scenica e vocale.

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Solida anche la prova di Youngjun Park nei panni di Amonasro, un artista capace di cogliere il segno del personaggio con una voce imponente, sicura e ben piazzata, gestita con accenti sempre calibrati e pertinenti.
Tra i bassi, Simon Lim (il Re) ha cantato con precisione e accuratezza, mentre Alexander Vinogradov (Ramfis) ha mostrato qualche incertezza nell’intonazione, in particolare nella grande scena del giudizio.
Hanno completato il cast con professionalità Carlo Bosi (Un messaggero) e Francesca Maionchi (Gran Sacerdotessa).
Alla guida dell’orchestra, il M° Daniel Oren ha offerto una lettura energica e controllata. Sulle note del breve preludio, denso di pathos, la sua mano sicura e decisa ha immediatamente impresso il sigillo sulla partitura di Verdi, cogliendo con acume le intenzioni e le molteplici sfumature del compositore.
Oren cesella la partitura con attenzione estrema: ogni intervento orchestrale è pensato per sostenere e amplificare il canto, mai per soverchiarlo. L'introduzione dell'aria del soprano nel terzo atto si è fusa perfettamente con la voce dell'interprete, mentre l'accompagnamento dei violini nel duetto finale ha creato quel delicato e struggente letto di morte su cui si sono adagiati i due amanti. Il Trionfo, momento topico dell’opera, è divenuto una grande espressione corale, dove ogni elemento ha partecipato con spirito combattivo, esaltando ogni armonia infusa in questo momento di massima magnificenza. Va però sottolineato che la stessa struttura dell'allestimento, con le sue distanze e l'affastellamento scenico, ha talvolta reso arduo il dialogo tra buca e palco, generando qualche inevitabile scollatura che ha messo a dura prova la fluidità dell'esecuzione d'insieme.
Il Coro, preparato dal M° Roberto Gabbiani, ha brillato per compattezza e coerenza stilistica dimostrandosi all'altezza delle più grandi rappresentazioni, esibendo una compattezza musicale invidiabile e conferendo ad ogni pagina uno stile inconfondibile, che solo la cornice areniana riesce a rendere unico.
In sintesi, questa Aida "di cristallo" si conferma uno spettacolo di indubbio impatto visivo, capace di ammaliare il pubblico con la sua estetica avveniristica e la sua grandiosità scenica.
La direzione musicale ha saputo restituire la magnificenza della partitura verdiana, supportata da un Coro di eccellente livello e da un cast vocale che, pur con qualche disomogeneità, ha offerto prove di notevole spessore.
Tuttavia, la marcata simbologia e l'autoreferenzialità della regia di Stefano Poda sollevano un interrogativo fondamentale sulla sua funzionalità rispetto all'essenza drammatico-musicale dell'opera.
Se da un lato l'Arena si riempie e i record si susseguono, dall'altro resta da chiedersi: in un'epoca in cui la ricerca di nuove letture registiche è costante, fino a che punto lo splendore visivo può e deve prevalere sulla coerenza drammaturgica e sulla primazia della musica, senza snaturare l'anima profonda del capolavoro verdiano?
(La recensione si riferisce alla recita del 29 giugno 2025)

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Crediti fotografici Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il direttore Daniel Oren
Sotto, in sequenza: istantanee di Ennevi Foto sulla "Aida di cristallo"
Al centro, in sequenza: Anna Maria Chiuri nel ruolo di Amneris; Maria José Siri (Aida) e Luciano Ganci (Radamès)
Sotto, in sequenza: panoramiche su scene e costumi
In fondo: il saluto del Coro diretto da Roberto Gabbiani al termine della recita





Pubblicato il 30 Giugno 2025
Un bel debutto veronese per la cantante venuta nell'anfiterato dal Metropolitan di New York
Blue Traviata in Arena servizio di Angela Bosetto

20250630_Vr_00_LaTraviata_AngelBlue_phEnneviFotoVERONA – “È spenta!” Quando la tonante voce di Giorgi Manoshvili risuona nell’Arena, segnando il termine della prima Traviata stagionale, si viene quasi colti da un senso di sorpresa. Per quanto chiunque frequenti il teatro lirico conosca a menadito il libretto di Francesco Maria Piave, è inevitabile chiedersi da quanto tempo non si assisteva a una recita dell’opera di Giuseppe Verdi che si concludesse realmente con la sentenza del Dottor Grenvil, “colpevole” di rubare l’attenzione alla dipartita della primadonna (e, proprio per questo, parodiata nella sequenza più esilarante della commedia Mi permette, babbo!, 1956). In Arena, di sicuro, da parecchio.
Lungi dal sortire un effetto alla Alberto Sordi, tale frase ha ribadito ancora una volta l’importanza dell’affidare il cosiddetto “comprimariato” ad artisti di alto livello, come appunto il giovane basso georgiano Manoshvili, che pur essendo già approdato ad Attila e a Filippo II, continua ad affrontare le parti senza peccare di protagonismo.

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L’apprezzamento va esteso doverosamente alla luminosa Annina di Francesca Maionchi, alla suadente Flora Bervoix di Sofia Koberidze, all’inappuntabile Gastone di Carlo Bosi, al gaudente Marchese d’Obigny di Jan Antem e al minaccioso Barone Douphol di Gabriele Sagona. A loro si affiancavano gli esordienti areniani Hidenori lnoue (Domestico/Commissionario) e Alessandro Caro (Giuseppe).
In occasione della prima del 27 giugno 2025, debuttava nell’anfiteatro veronese anche la protagonista dell’opera, ovvero la statunitense Angel Blue, star del Metropolitan di New York e prima cantante afroamericana a vestire i panni di Violetta Valéry alla Scala di Milano nel 2019. Superato con alcune difficoltà il primo atto (il più belcantistico e il meno affine al suo tipo di vocalità), il soprano ha potuto valorizzare appieno un timbro intenso e potente, che trovava libero sfogo nel crescendo drammatico, nell’impossibile ribellione a un destino già scritto e nell’abbandono più commovente. Opinabile il fatto che la sua Violetta tossisca sul serio (Verdi raccomandava di non farlo), ma tale scelta rientra nell’approccio personale al ruolo e, se la voce non ne risente, va accettata.
Il tenore Galeano Salas è stato un Alfredo Germont  tutto giocato sulla dolcezza amorosa e sulla piacevolezza timbrica, magari rifinibile (come è sempre auspicabile nel caso dei giovani interpreti dotati di bei mezzi naturali), ma comunque soddisfacente.

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Difficile trovare nuovi aggettivi per quel fenomeno che risponde al nome di Amartuvshin Enkhbat e che inanella inaugurazioni areniane (Nabucco, Aida, La Traviata per ora e Rigoletto ad agosto) senza mostrare un minimo di stanchezza, a dispetto del caldo e della gravosità delle opere. Il suo austero Giorgio Germont è una certezza.
Intimamente suggestiva la direzione di Speranza Scappucci (di nuovo sul podio veronese dopo il Requiem vediano del 2021), votata alla costruzione di un’atmosfera interiore (prima ancora che sulla scena) e alla valorizzazione delle voci, incluse quelle del coro, ben preparato da Roberto Gabbiani.

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Creato nel 2011, ambientato nella Belle Époque (sopratutto per quanto riguarda costumi e relative scelte cromatiche) e ispirato alla pittura di Eugenio Scomparini (in particolare al quadro Margherita Gauthier, 1890), l’allestimento simbolico di Hugo de Ana risulta concepito come una metafora delle illusioni spezzate, dove i personaggi si muovono in un tripudio di cornici infrante, vecchie stampe, quadri sbiaditi, specchi opachi, arazzi consunti e manifesti del tempo che fu. Per quanto aderente alle aspettative del pubblico estivo (dal palco brulicante di comparse al lancio di coriandoli), l’intero spettacolo è pervaso di critica sociale e di una sottile crudeltà (a partire dalle allusive coreografie di Leda Lojodice, riprese da Michele Cosentino), che se da una parte eleva Violetta rispetto alla volgarità dell’ambiente mondano che la circonda, dall’altra la condanna alla solitudine e all’incomprensione in quanto creatura unica, diversa e umanamente migliore.
Sold-out annunciato e applausi per tutti, con punte di entusiasmo per Speranza Scappucci e Angel Blue.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 27 giugno 2025)

Crediti fotografici: Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il soprano Angel Blue (Violetta Valery)
Sotto: la direttrice d'orchestra Speranza Scappucci
Al centro: Angel Blue con Galeano Salas (Alfredo Germont)
Sotto, in sequenza: la Blue con Amartuvshin Enkhbat (Giorgio Germont); Sofia Koberidze (Flora Bervoix), Jan Antem (
Marchese d’Obigny
), Giorgi Manoshvili (Dottor Grenvil); Galeano Salas, Carlo Bosi (Gastone), Jan Antem
In fondo: bella panoramica di Ennevi Foto sull'allestimento di Hugo de Ana





Pubblicato il 30 Giugno 2025
L'opera di Giacomo Puccini ambientata con successo nella storica cattedrale collinare di Trieste
Tosca sugli spalti di San Giusto servizio di Rossana Poletti

20250630_Ts_00_Tosca_EnricoCalesso_phFabioParenzanTRIESTE – Castello di San Giusto. Non è l’Arena di Verona e men che meno Castel Sant’Angelo, ma gli spalti di San Giusto, le pietre antiche che contornano il grande piazzale delle Milizie, suscitano nella Tosca di Giacomo Puccini, in scena a Trieste, il senso di incombenza del pericolo, della morte che la musica del grande compositore regala al pubblico, accorso numeroso in una sera infuocata dal gran caldo e dall’assenza di un minimo alito di vento. L’allestimento è necessariamente contenuto sul grande palco costruito nell’angolo più spoglio della grande piazza, edificata nel Cinquecento per la difesa militare della città. Sul fondale due tele si succedono tra il primo e il secondo atto: la Madonna che Cavaradossi sta dipingendo e poi un particolare dagli affreschi presenti a Palazzo Farnese.
La regia di Stefania Panighini porta a San Giusto l’arte dei Carracci come chiave di lettura della potente femminilità della protagonista. La regista immagina la tela e i figuranti che davanti ne mimano i protagonisti, quindi nel primo atto donne si mostrano come nel dipinto ai piedi di Maria Vergine, in particolare la sosia della marchesa Attavanti, che produrrà in Floria Tosca la sfrenata gelosia, alla base della rovina dei due amanti.
Nel secondo atto la notizia di Napoleone vincitore a Marengo è rappresentata dall’immagine gloriosa e i figuranti vestono da antichi romani! A dire il vero nella scena del “duello” verbale e fisico tra Tosca e Scarpia queste coreografie sembrano superflue, anzi negative.
Il drappo nero del terzo atto ricorda i teli viola nelle chiese in quaresima.
L’orchestra del Verdi, posta sotto il palco, diretta da Enrico Calesso, sottolinea con maestria i momenti quasi silenti ed esalta con corretta enfasi i passaggi tumultuosi dell’opera, le inquietudini, le passioni.

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La gelosia, la malvagità, l'amore perseguitato interessava evidentemente Puccini più del grande affresco storico del romanzo di Victorien Sardou del 1887 (dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto), che era invece intriso di delitti e di sangue, di copiosi particolari della cornice storica realistica e zeppo di personaggi secondari.
Tosca debuttò il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma, accolta non troppo positivamente dalla critica, in poco tempo entrò però nel repertorio di tutti i teatri lirici del mondo.
I protagonisti lasciano il pubblico soddisfatto: Tosca, interpretata da Elena Pankratova, si distingue per la buona immedesimazione nella parte e per le capacità vocali, mettendo in campo volume e notevole temperamento, soprattutto nella scena in cui uccide Scarpia. “Vissi d’arte” la vede innamorata e dolente per la sorte funesta e non tradisce le aspettative.

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Il Mario Cavaradossi di Fabio Sartori è forte, potente e vigoroso, anche la figura lo è. Atteso nel finale nella famosa romanza “E lucevan le stelle”, struggente grido di dolore per la vita che va esaurendosi tragicamente, Sartori si esprime con sincera emotività, che forse è un po’ mancata nel primo atto.
Il sadico Barone Scarpia è il personaggio che impersona il male assoluto, l’ipocrisia e la falsità più brutali, usa il potere solo ed esclusivamente per il suo tornaconto; vederlo autoflagellarsi in scena, per scacciare i demoni della sua cattiveria, lascia qualche perplessità. La voce di Ambrogio Maestri, che lo interpreta, è ancora potente, supera agevolmente il fragore dell’orchestra, manca forse appena di sottolineare la perversità di Scarpia in quel secondo atto tutto incentrato sull’evoluzione del dramma che andrà più tardi in scena: l’uccisione di Cavaradossi e il suicidio di Tosca.
Completano il cast il giovane basso baritono William Corrò, che interpreta il fuggiasco Angelotti, il convincente basso Abramo Rosalen (il Sagrestano), il tenore Andrea Schifaudo (Spoletta), il basso Francesco Auriemma (Sciarrone), Damiano Locatelli (il Carceriere) e Sophie Emilie Bernstein (il Pastorello).
Nel primo atto il coro del Teatro Verdi, diretto da Paolo Longo, e i Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro invadono il palco, sono i fedeli che popolano la chiesa intonando il "Te Deum" per celebrare la sconfitta di Napoleone, mentre Scarpia già immagina con gioia feroce l'impiccagione di Cavaradossi e sogna di avere Tosca fra le sue braccia.
Le scene sono di Nicolò Cristiano, i costumi di Chiara Barichello, luci di Emanuele Agliati, effetti sonori di Luca Bimbi. Successo scontato di partecipazione e di caloroso consenso del pubblico.
(La recensione si riferisce alla recita del 29 giugno 2025)

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Crediti fotografici: Fabio Parenzan per il Teatro Verdi di Trieste
Nella miniatura in alto: il direttore Enrico Calesso
Sotto, in sequenza: Ambrogio Maestri (Scarpia), Elena Pankratova (Tosca), Fabio Sartori (Cavaradossi); Abramo Rosalen (il Sagrestano) con il coro di voci bianche nella scena del "baccano in chiesa"
Al centro, in sequenza: Scena del "Te Deum"; Ambrogio Maestri e Elena Pankratova nel secondo atto; ancora Ambrogio Maestri e Elena Pankratova nel finale del secondo atto
Sotto, in sequenza: belle panoramiche di Fabio Parenzan, su scene e costumi, sui saluti finali e sul pubblico di questo allestimento triestino in San Giusto






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Proprio di questo è stata specchio l'opera in un atto Nanof, l'altro con la quale il Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" ha inaugurato, venerdì 8 agosto la propria settantanovesima stagione lirica nel Teatro Caio Melisso di Piazza del Duomo: musica di Antonio Agostini, libretto di Chiara Serani con la collaborazione di Davide Toschi.
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Nabucco Carmen La traviata
servizio di Angela Bosetto FREE

20250731_Vr_00_Nabucco_StefanoPodaVERONA – Anna Netrebko, Anita Rachvelishvili e Rosa Feola, ovvero Abigaille, Carmen e Violetta Valéry. Sono loro le tre grazie musicali che, dal 17 al 19 luglio 2025, hanno acceso l’Arena, rendendo ciascuna rappresentazione meritevole di grande interesse in virtù della propria peculiarità. Per il soprano russo si trattava del debutto italiano come figlia
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Jazz Pop Rock Etno
Verdi e il jazz un dialogo
servizio di Simone Tomei FREE

20250727_Fabbiano_00_ValtidoneFestival_AlessandroBertozziFABBIANO, Borgonovo Val Tidone (PC) - Nella serata di sabato 26 luglio 2025, un angolo a me ancora misconosciuto della Val Tidone, la suggestiva piazzetta di Fabbiano, frazione di Borgonovo Val Tidone, si è trasformato in un crocevia di sublime audacia musicale. Il Valtidone Festival, giunto alla sua 27ª edizione e promosso dalla
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Opera dal Centro-Nord
Ecco la Bohčme che ti aspetti
servizio di Athos Tromboni FREE

20250720_TorreDelLago_00_LaBoheme_PierGiorgioMorandi_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Un po' meno pubblico per La bohème rispetto alla Tosca della sera precedente, nel Gran Teatro all'aperto sul Lago di Massaciuccoli. Comunque una buona presenza (diciamo a spanne, oltre 2 mila spettatori?) per un ritorno, quello della regia "cinematografica" di Ettore Scola del 2014 ripresa da
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Opera dal Centro-Nord
Un magico Elisir
servizio di Simone Tomei FREE

20250716_Fi_00_LElisirDAmore_AntonioMandrrillo_phMicheleMonastaFIRENZE - L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti è un capolavoro senza tempo che, a quasi due secoli dalla sua prima rappresentazione, continua a incantare e commuovere. Definito "melodramma giocoso", fonde mirabilmente la profondità patetica con l'arguzia dell'opera buffa italiana, creando una "commedia agrodolce" capace di strappare
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Echi dal Territorio
79 anni di emozioni
redatto da Athos Tromboni FREE

20250715_Spoleto_00_Stagione2025_AntonioAgostini_phRomboniDalleLucheSPOLETO (PG) - Partirà il 7 agosto 2025 per concludersi il 24 settembre la nuova Stagione lirica del Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" giunta al lodevole traguardo della 79.ma edizione. Gli spettacoli, oltre che nella città spoletina, andranno in scena anche nei principali teatri dell'Umbria: «79 anni di emozioni, una stagione da vivere!» è lo slogan
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Jazz Pop Rock Etno
La notte degli Oscar
servizio di Athos Tromboni FREE

20250711_Vigarano_00_GruppoDei10_DadoMoroniVIGARANO MAINARDA (FE) - La "Notte degli Oscar" del Gruppo dei 10 idea uscita dalla testa di Alessandro Mistri (così come Pallade Atena uscì dalla testa di Zeus, ci racconta il poeta greco Esiodo) ha visto una nutrita partecipazione di pubblico allo Spirito di Vigarano Mainarda.
Non poteva essere altrimenti
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Jazz Pop Rock Etno
De Silva amore che vieni amore che vai
servizio di Athos Tromboni FREE

20250707_Comacchio_00_GruppoDei10_DiegoDeSilvaCOMACCHIO (FE) - Ha preso il via ieri sera con una nutrita partecipazione di pubblico il ciclo di sei concerti del "Gruppo dei 10" versione estiva: Tutte le direzioni in summer time 2025. Ospite per l'apertura era il Trio Malinconico formato da Diego De Silva (voce e chitarra acustica), Stefano Giuliano (sax alto) e Aldo Vigorito (contrabbasso). Prima della
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Eventi
Opera tra tradizione e novitā
redatto da Simone Tomei FREE

20250703_Ge_00_StagioneCarloFelice_MicheleGalliGENOVA - È un viaggio simbolico e culturale quello che il Teatro Carlo Felice di Genova propone per la stagione 2025-2026, presentata ufficialmente alla stampa lo scorso 2 luglio. Un viaggio che coinvolge artisti e pubblico come naviganti di una stessa rotta, guidati da una bussola che punta al repertorio lirico più amato, ma non rinuncia a
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Opera dal Nord-Est
L'Aida di cristallo č tornata
servizio di Simone Tomei FREE

20250701_Vr_00_Aida_DanielOren_phEnneviFotoVERONA - Quando l’Aida di Giuseppe Verdi risuona all’Arena di Verona non si tratta di una semplice replica, è un rito collettivo, un appuntamento simbolico che scandisce il calendario della lirica estiva. Questa nuova ripresa dell’allestimento firmato da Stefano Poda, definito “di cristallo” per le sue trasparenze e gli inediti giochi di luce, ha riaperto il sipario
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Opera dall Estero
Idomeneo a San Francisco
servizio di Ramón Jacques FREE

20250701_00_SanFrancisco_Idomeneo_MatthewPolenzani_phCoryWeaverSAN FRANCISCO (USA) War Memorial Opera House - Sebbene Idomeneo, l’opera seria in tre atti di Wolfgang Amadeus Mozart (1756–1791), abbia avuto la sua prima americana il 4 agosto 1947 al Berkshire Music Festival di Tanglewood, nel Massachusetts (ora sede estiva della Boston Symphony Orchestra), fu la San Francisco Opera a
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Opera dal Nord-Est
Blue Traviata in Arena
servizio di Angela Bosetto FREE

20250630_Vr_00_LaTraviata_AngelBlue_phEnneviFotoVERONA – “È spenta!” Quando la tonante voce di Giorgi Manoshvili risuona nell’Arena, segnando il termine della prima Traviata stagionale, si viene quasi colti da un senso di sorpresa. Per quanto chiunque frequenti il teatro lirico conosca a menadito il libretto di Francesco Maria Piave, è inevitabile chiedersi da quanto tempo non si assisteva
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Opera dal Centro-Nord
Matrimonio in camera da letto
servizio di Athos Tromboni FREE

20250630_Fe_00_IlMatrimonioSegreto_GerardoFelisatti_phMarcoCaselliNirmalFERRARA - L'allestimento di Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati ha chiuso la stagione d'opera del Teatro Comunale "Claudio Abbado" con un vero successo di pubblico: sia per la presenza di tanti spettatori in platea e nei palchi, sia per il calore con cui è stata salutata la recita a fine serata. La produzione era il
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Opera dal Nord-Est
Tosca sugli spalti di San Giusto
servizio di Rossana Poletti FREE

20250630_Ts_00_Tosca_EnricoCalesso_phFabioParenzanTRIESTE – Castello di San Giusto. Non è l’Arena di Verona e men che meno Castel Sant’Angelo, ma gli spalti di San Giusto, le pietre antiche che contornano il grande piazzale delle Milizie, suscitano nella Tosca di Giacomo Puccini, in scena a Trieste, il senso di incombenza del pericolo, della morte che la musica del grande compositore regala al pubblico,
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Opera dal Centro-Nord
Aida nella palestra
servizio di Nicola Barsanti FREE

20250628_Fi_00_Aida_DamianoMichielettoFIRENZE –  Opera emblema del grande repertorio verdiano, Aida è spesso associata all’idea di spettacolarità, grandi masse corali, scene sontuose e sontuosi costumi esotici. Tuttavia, dietro la patina dell’epico e del monumentale, si cela un’anima intimista, quasi cameristica: Aida è, in fondo, una tragedia dell'amore e del potere, fatta di sguardi, silenzi,
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Echi dal Territorio
Torna la rassegna Tutte le Direzioni Estate
servizio di Athos Tromboni FREE

20250627_Fe_00_GruppoDei10_MassimoCavallerettiFERRARA - Torna l'estate e, come ogni anno, torna anche la programmazione "balneare" del Gruppo dei 10: Tutte le direzioni in summertime 2025, la canonica rassegna estiva conterà quest'anno sei appuntamenti, dal 6 luglio al 12 settembre che si svolgeranno per due concerti nella consolidata location del Bar Ragno di Comacchio in via Cavour 1
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Opera dal Nord-Est
Candide da Voltaire a Bernstein
servizio di Rossana Poletti (13 giugno 2025) FREE

20250614_Ts_00_Candide_KevinRhodes_phFabioParenzanTRIESTE - Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”. Per quale motivo Leonard Bernstein scelse il romanzo filosofico “Candide” di Voltaire per scrivere un’opera che lo proiettasse nel mondo lirico? Il primo motivo è certamente la questione politica. Nel dopoguerra l’America è dominata dal Maccartismo (un po’ come oggi dal trumpismo, ma guarda
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