Pubblicato il 13 Luglio 2024
Il capolavoro di Bizet nella lettura registica di Franco Zeffirelli continua a infiammare il pubblico
Carmen vive, viva Carmen! servizio di Angela Bosetto

20240713_Vr_00_Carmen_AigulAkhmetshina_EnneviFotoVERONA –  Creato nel 1995, l’allestimento areniano di Carmen firmato da Franco Zeffirelli è ormai considerato un grande classico del festival lirico estivo eppure non è mai rimasto uguale a se stesso, se si escludono i magnifici costumi di Anna Anni. Difatti, nel corso di oltre trent’anni, lo spettacolo è stato modificato, aggiornato, ripensato, ridotto e, infine, parzialmente ripristinato in una versione (inaugurata nel 2022 e modellata dalle luci di Paolo Mazzon) che rappresenta la miglior mediazione possibile fra l’opulenza originaria e i successivi vincoli, imposti dai Beni Culturali, sulla costruzione degli impianti scenografici in Arena.
Al netto delle esigenze pratiche e delle limitazioni, la Carmen di Bizet nella rappresentazione zeffirelliana (che richiede – solo sul palco – la presenza di circa cinquecento persone, fra solisti, coristi, ballerini e figuranti… senza contare cavalli e asinelli) rimane comunque un signor kolossal. Inoltre, sempre dal 2022, la parte danzante è raddoppiata: da un lato la coreografia originale (ideata da El Camborio), dall’altro il contributo della Compañia Antonio Gades (diretta da Stella Arauzo), che tramuta il cambio scena fra terzo e quarto atto in un inedito momento di sfida a ritmo di flamenco, ammaliando il pubblico.
In occasione del 101° Arena di Verona Opera Festival, a dirigere Carmen è stato chiamato il giovane Leonardo Sini (classe 1990), che, nonostante la comprensibile emozione da debutto, non si lascia intimorire né dall’ampiezza del luogo, né dal peso della sua eredità storica. Di grande eleganza nei segmenti squisitamente strumentali, dimostra sicurezza e personalità sia nel dialogo col palcoscenico, sia nel dipanare le diverse campiture sonore. Colpisce anche la bella sinergia stabilita con il Maestro del Coro Roberto Gabbiani nella ricerca di tutte quelle sfumature che (esaltate dalle voci maschili e femminili) rendono tale il capolavoro di Georges Bizet.

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Carmen è la ventisettenne Aigul Akhmetshina, già interprete della zingara ribelle a Londra, Berlino, Monaco, Lisbona e New York, ormai lanciatissima nel panorama internazionale… e a ragione. Il mezzosoprano russo non solo possiede uno timbro di bronzo e velluto che coniuga bellezza, spessore, potenza ed estensione, ma un’espressività recitativa che le permette di costruire il personaggio nel senso più tradizionale del termine (in linea con l’allestimento) senza risultare minimamente stucchevole o “da cartolina”.

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A contendersi i suoi favori sono il malinconico Don José di Francesco Meli (la cui rinomata capacità di cesellare frasi e intenzioni con intelligenza musicale ne fa un personaggio sofferto, nonché un’altra vittima dei propri stessi, contradditori impulsi) e lo spavaldo Escamillo di Erwin Schrott, perfettamente a proprio agio nella parte del torero idolo delle folle, grazie alla seduttività sorniona e alla forte presenza scenica.
Debutta in Arena anche Kristina Mkhitaryan, la quale disegna una Micaëla di spessore, complici la bella vocalità, la cura interpretativa e l’abbandono lirico.
Ben amalgamato ed efficace il quartetto composto da Daniela Cappiello (frizzante Frasquita), Alessia Nadin (volitiva Mercédès), Jan Antem (gioviale Dancairo dal piglio guascone) e Vincent Ordonneau (puntuale Remendado).
Completano il cast il sonoro Zuniga di Gabriele Sagona e l’esperto Moralès di Fabio Previati. Adorabile il contributo del Coro di voci bianche A.LI.VE (preparato da Paolo Facincani), che intenerisce sempre quando intona con convinzione “Avec la garde montante”.
Grande successo collettivo, con Arena piena e ovazioni per l’intero cast. Carmen vive, viva Carmen!
Nota di costume a margine: la prima del 5 luglio è stata preceduta da una breve esibizione della Banda della Guardia di Finanza, che, per celebrare i 250 anni delle Fiamme Gialle, ha eseguito (sotto la direzione del Colonnello Leonardo Laserra Ingrosso) la propria Marcia d’ordinanza, Scossa Elettrica (Marcia Brillante) di Giacomo Puccini (che fu appuntato ad honorem della Regia Guardia di Finanza) e la suite Ritratto Felliniano di Nino Rota. Quindi il gong è stato suonato da  sei Atleti Fiamme Gialle: gli azzurri Giacomo Bertagnolli, Simone Deromedis, Alex Vinatzer e Nicol Delago, insieme ai campioni olimpici Antonio Rossi e Roberto Di Donna.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 5 luglio 2024)

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Crediti fotografici: Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: la protagonista Aigul Akhmetshina (Carmen)
Sotto in sequenza: ancira Aigul Akhmetshina; Francesco Meli (Don José) con la Akhmetshina; il direttore Leonardo Sini
Al centro: il quintetto con Daniela Cappiello (Frasquita), Alessia Nadin (Mercédès), Vincent Ordonneau (Remendado), Jan Antem (Dancairo) e Aigul Akhmetshina (Carmen)
In fondo in sequenza: panoramica sull'allestimento e saluti finali del cast





Pubblicato il 30 Giugno 2024
Il capolavoro buffo di Gioachino Rossini accolto in Arena da scrosci di pioggia ma poi va in scena
Torna il Barbiere dopo il diluvio servizio di Angela Bosetto

20240630_Vr_00_IlBarbiereDiSiviglia_MattiaOlivieri_phEnneviFotoVERONA - Quando, nella nona scena del Barbiere di Siviglia, il Conte d’Almaviva si lamenta dell’improvviso temporale, affermando «... Poter del mondo! Che tempo indiavolato ...», Figaro replica, soave: «Tempo da innamorati!». Ed è con il pensiero rivolto all’ottimismo del factotum rossiniano che il pubblico attende la prima areniana stagionale de Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Le previsioni metereologiche non sono rosee e, fino a poco prima dell’inizio, cade una pioggerella tanto sottile quanto insistente. L’Ouverture fa appena in tempo a cominciare quando si aprono le cateratte del cielo. Lo scroscio d’acqua è così forte che una parte dei presenti si scoraggia e decide di rinunciare, ma gli "innamorati" (dell’opera e dell’anfiteatro veronese) si armano di pazienza e aspettano. Serve quasi un un’ora, però il miracolo avviene: non solo la pioggia si placa, ma il vento notturno spazza via il caldo e le nubi. Le stelle sorridono, gli spettatori riprendono posto e il fiabesco giardino, in cui Hugo de Ana ha scelto di ambientare il capolavoro di Rossini, torna a schiudersi. Pur avendo già 17 anni, l’allestimento (ripreso in questo caso da Veronica Bolognani) continua a funzionare molto bene, grazie al suo peculiare impianto scenico floreale (fatto di siepi mobili, scale, dettagli rococò, farfalle e rose gigantesche) e al fantasioso caleidoscopio di mimi, comparse, acrobati e ballerini, che le coreografie di Leda Lojodice fanno muovere in stile carillon come vezzose statuine.
Sul podio areniano debutta George Petrou, direttore greco specializzato nel repertorio barocco e nel Settecento italiano, ambiti di cui Rossini è diretto discendente. La sua bacchetta guida l’orchestra con un’eleganza leggera e rigorosa, ed è sempre lui ad accompagnare i recitativi al fortepiano.

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Ma anche il cast offre un doppio esordio nell’anfiteatro e, nello specifico, tale evento riguarda il tenore René Barbera e il baritono Paolo Bordogna. Il primo, chiamato a vestire i panni del Conte d’Almaviva (e a cimentarsi pure con la funambolica aria "Cessa di più resistere"), esibisce un timbro caldo e dolce, unito a una linea di canto assai piacevole. Il secondo, impegnato a contrastarlo in qualità di Don Bartolo, gioca tutto sull’indiscutibile esperienza recitativa e vocale, anche a rischio di andare un po’ sopra le righe (il che è abbastanza comune quando si calca per prima volta il palco areniano, le cui dimensioni fanno spesso pensare che sia necessario amplificare la performance per farsi percepire allo stesso modo da tutto il pubblico).

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A dieci anni dal suo debutto areniano come Ping (Turandot, 2014), Mattia Olivieri  torna nell’anfiteatro come Figaro, tratteggiando un barbiere baldanzoso e mercuriale, sicurissimo del proprio carisma scenico e dei propri mezzi (anche perché la sua voce, fresca e lucente, gode di un’ottima proiezione).
Già ascoltata l’estate scorsa, Vasilisa Berzhanskaya si conferma una Rosina volitiva, astuta e civettuola, dotata di un timbro (intenso e screziato) di grande fascino ed estensione.
È un piacere ritrovare anche il Don Basilio stralunato e tonante di Roberto Tagliavini, che già lo aveva interpretato nell’edizione areniana del 2015 e che ora lo ripropone con un’ancora maggior suadente consapevolezza.

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Convocata per il secondo anno consecutivo nei panni dell’anziana domestica, Marianna Mappa rimane un’ottima Berta, affiancata dal veterano Nicolò Ceriani (Fiorello/Ambogio) e dal debuttante Domenico Apollonio (un Ufficiale).
Sempre inappuntabile il Coro, preparato con dovizia da Roberto Gabbiani.
Successo pieno per tutti e pubblico numeroso nonostante il maltempo.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 17 giugno 2024)

Crediti fotografici: Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il baritono Mattia Olivieri (Figaro)
Sotto in sequenza: Vasilisa Berzhanskaya (Rosina) e Mattia Olivieri; René Barbera (Conte d'Almaviva), Mattia Olivieri e Vasilisa Berzhanskaya; ancora Mattia Olivieri, Vasilisa Berzhanskaya, René Barbera e Roberto Tagliavini (Don Basilio); il direttore George Petrou
Al centro e in fondo: belle panoramiche di Ennevi Foto sull'allestimento di Hugo de Ana ripreso da  Veronica Bolognani





Pubblicato il 16 Giugno 2024
I lavori di Fiorenzo Carpi e di Béla Bartók chiudono nel segno del Novecento la stagione del Verdi
Il dittico delle Porte servizio di Rossana Poletti

20240616_Ts_00_LaPortaDivisoria-IlCastelloDiBarbablu_MarcoAngiusTRIESTE - Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”. Si conclude con un dittico la stagione lirica del Teatro Verdi: in scena La Porta divisoria di Fiorenzo Carpi e Il Castello del Duca Barbablù di Béla Bartók. Di La Porta divisoria le notizie sono legate ai documenti conservati nell’Archivio del Piccolo Teatro di Milano, perché all’opera è legata la figura del triestino Giorgio Strehler quale librettista. Anzi a questo atto unico sono legati due personaggi della città giuliana, Viktor de Sabata, che commissionò l’opera quando fu direttore artistico della Scala di Milano e il noto regista del Piccolo, che nonostante avesse abbandonato la città all’età di sei anni, mantenne per tutta la vita la cadenza del dialetto triestino.
Fiorenzo Carpi non concluse mai l’opera, dei cinque quadri previsti ne compose quattro, lasciando così incompiuto il lavoro. Le motivazioni portate a spiegazione del fatto sono varie, ma visto lo spettacolo convincono molto le affermazioni di Alessandro Solbiati che, nel metter mano alla composizione del finale, ha osservato che probabilmente Carpi fu ostacolato dal testo di Strehler, «... che però ho parzialmente rivisitato - scrive - eliminando alcune formule che appaiono datate, un poco prolisse e più adatte ad un ‘teatro di parola’ cui Strehler era certo più avvezzo, che non al teatro musicale, soprattutto di oggi.»
Gli artisti cantano poco, declamano, recitano sulla musica, vera singolarità; Gregorio, il protagonista, si affaccia ad uno dei palchetti del teatro e si esprime distante dalla scena.
L’opera si ispira alla Metamorfosi di Kafka, è indubbiamente un omaggio al grande scrittore praghese, ma se ne discosta per un fatto innegabile nella messinscena. Lo scarafaggio, in cui Gregorio si tramuta improvvisamente, non viene mai mostrato al pubblico. Lo vedono i familiari, le cameriere e gli ospiti, ne rappresentano l’orrore, ma mai si vedrà l’animale che invece lo scrittore descrive con minuzia. Franz Kafka aveva vissuto per un breve periodo, impiegato alle Assicurazioni Generali di Trieste, al tempo facente parte dell’Impero Austro-Ungarico, fu proprio questa sua presenza nella sua città natale a convincere Strehler a sceglierne il lavoro più noto, del Gregor Samsa, divenuto scarafaggio, ma nell’intimo ancora un uomo che non riesce più a comunicare con il mondo.

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La scena di Andrea Stanisci è l’interno piccolo borghese, ambiente considerato luogo di emarginazione, gretto e conformista, secondo il pensiero dominante degli anni Cinquanta, più che elemento di incomunicabilità, più vicino al mondo di Kafka. Un velo divide la scena dal pubblico, velo su cui si apre una porta, che deve rimanere chiusa e Gregorio non deve varcarla. Ma accadrà proprio questo e sarà la sua fine. Gregorio è Davide Romeo, suo padre è Alfonso Michele Ciulla, la madre è Simone van Seumeren, la sorella è Antonia Salzano, il gerente di Gregorio è Davide Peroni e poi ancora i pensionanti Oronzo D’Urso e Giordano Farina, le domestiche Federica Tuccillo e Claudia Floris.
Dirige l’Orchestra del Verdi il maestro Marco Angius, la regia è di Giorgio Bongiovanni. Le luci di Eva Bruno danno vitalità allo spettacolo e alla musica di Carpi e Solbiati che racconta di un Novecento difficile, doloroso e inquieto.
Il pubblico ha applaudito l’allestimento del 2022 del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, unica volta in cui è stato possibile vedere l’opera, oltre a Trieste, perché mai andata in scena precedentemente.

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Il secondo atto unico è dedicato al famoso Barbablù, la cui leggenda si snoda con molte varianti da secoli. Le opere liriche, tra cui quella famosissima di Debussy del 1902, ma anche le operette di Offenbach e Suppè, differiscono dalla scelta di Béla Bartók e del librettista Béla Balász nel raccontare la leggenda del crudele duca. I due trasformano Barbablù in un mostro buono.
Henning Brockhaus, regista dello spettacolo, lo definisce un mondo di emozioni senza logica, surreale: «Barbablù parla di torture che non vengono fatte, orrori che non si vedono, donne che si credono morte e che a sorpresa poi sono vive. Il mostro buono le ammazza metaforicamente, è uno che ha finito con la vita.»
Nel suo saggio Enrico Giraldi scrive: «... Tutto ciò - organizzazione strutturale, linguaggio musicale piegato alla descrizione dei contenuti simbolici - conferisce all’opera di Bartók un grado altissimo di teatralità ma non spiega perché il compositore magiaro fosse stato così attratto dal soggetto propostogli da Balász. Certo è soggetto attualissimo in quegli anni di vivo, profondo interesse per l’animo umano e per la passione e le perversioni che lo percorrono. Tra le diverse interpretazioni possibili della vicenda di Barbabù, oltre all’omosessualità e all’impotenza, sembra suggestiva quella che motiva il desiderio di lasciare una distanza tra sé e il proprio completamento femminile.»
I costumi di Giancarlo Colis sono stupefacenti, i quattro colori delle donne, tenui e pastello quelli di coloro che rappresentano l’alba, il mezzogiorno e la sera, infuocato di rosso della protagonista Judith, che diventerà al fine la donna della notte, con tutti i sottintesi che si possono immaginare.
Il Duca veste un cappotto di pelle, che sottolinea il suo tetro personaggio, anche imponente nella fisicità. Le scene rappresentano il castello dell’orrore, così come la musica lo descrive: i fasci di luce, le proiezioni, le immagini, il sangue che cola dalle pareti, l’acqua che scende, i diamanti e i suoni di fondo prodotti dall’orchestra, in un insieme di drammaticità incalzante.
Il Duca di Andrea Silvestrelli e Judith interpretata da Isabel De Paoli sono straordinari, le loro vocalità sono calzanti per le parti che sono chiamati a evocare, lui rude ma non brutale, lei passionale e curiosa. Non aprire le sette porte, chiede il Duca, ma la donna andrà fino in fondo. Ogni porta aperta è uno sviluppo musicale a se stante, dalla sala delle torture a quella degli orrori, ma anche dei fiori e del tesoro, fino all’ultima in cui sono rinchiuse le donne della vita del mostro, a cui Judith, volente o nolente a quel punto si aggiungerà.

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Al mesto inizio segue un crescendo che vede un rinforzo di fiati fuori della buca, la musica non finisce mai di essere drammatica e inquietante. Anche qui direttore è il maestro Marco Angius, che esalta pienamente, con un’orchestra in grande forma, l’opera di Béla Bartók. Apre l’atto unico la presenza in scena di un bardo, interpretato da Maurizio Zacchigna: «... ahi, storie segrete, dove, dove trovarle? C’era una volta: dentro o fuori? Antica storia che significherà, uomini e donne?...»
Il pubblico applaude alla fine convintamente i due interpreti, ma anche l’impianto complessivo dello spettacolo.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 14 giugno 2024)

Crediti fotografici: Fabio Parenzan, Ludovica Gelpi e Riccardo Spinella per il Teatro Verdi di Trieste
Nella miniatura in alto: il direttore Marco Angius
Sotto, in sequenza: immagini da La Porta divisoria di Fiorenzo Carpi
Al centro e sotto: Isabel De Paoli (Judith) e Andrea Silvestrelli (il Duca) nell'opera di Béla Bartók





Pubblicato il 09 Giugno 2024
Straordinaria e partecipata presenza di pubblico nelle prime due serate del 101° Festival
Doppia inaugurazione in Arena servizio di Angela Bosetto

20240609_Vr_00_LaGrandeOperaItaliana_FrancescoIvanCiampaVERONA - Negli anni Novanta, il celebre spot di un altrettanto famoso gelato affermava che «Du gust is megl che one», quindi dato che l’estate è alle porte e ci sono ben due cose da festeggiare (il riconoscimento della pratica del canto lirico italiano come Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO e il centenario della scomparsa di Giacomo Puccini), anche l’Arena di Verona decide di inaugurare il proprio 101° Festival Lirico con una doppia apertura: da una parte, l’evento in mondovisione La Grande Opera Italiana Patrimonio dell’Umanità (trasmesso dalla RAI e condotto da Cristiana Capotondi, Luca Zingaretti e Alberto Angela), dall’altra l’opera pucciniana prediletta dal pubblico areniano, ovvero Turandot, che, con le sue centocinquanta recite (dal 1928 a oggi), occupa stabilmente la quarta posizione fra i titoli più rappresentati nella storia dell’anfiteatro veronese.

La Grande Opera Italiana Patrimonio dell’Umanità - 7 giugno 2024
Prima di iniziare, è necessario fornire un po’ di numeri. Non in relazione alle migliaia di spettatori che hanno riempito l’Arena, allo share televisivo (secondo i comunicati, il Gala è stato seguito da 80 milioni di persone in tutto il mondo) o alle autorità governative (dall’applauditissimo Presidente Segio Mattarella alle maggiori cariche dello stato, dai rappresentanti delle varie istituzioni culturali agli ambasciatori dei Paesi UNESCO), bensì a coloro che hanno reso possibile La Grande Opera Italiana Patrimonio dell’Umanità.

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Al concerto hanno partecipato due direttori d’orchestra (Riccardo Muti e Francesco Ivan Ciampa), due étoile della danza (Roberto Bolle e Nicoletta Manni), una ventina di solisti (sebbene “alla cantata” sia mancata la diva Anna Netrebko), 160 professori d’Orchestra e 300 coristi (preparati dal sempre encomiabile Roberto Gabbiani) provenienti, oltre che da Fondazione Arena, dalla Scala di Milano, dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dal Petruzzelli di Bari, dal Comunale di Bologna, dal Lirico di Cagliari, dal Maggio Musicale Fiorentino, dal Carlo Felice di Genova, dal San Carlo di Napoli, dal Massimo di Palermo, dall’Opera di Roma, dal Regio di Torino, dal Verdi di Trieste, dalla Fenice di Venezia e dai Teatri di Tradizione aderenti all’ATIT.
E a queste cifre vanno aggiunte tutte le maestranze areniane, visibili e invisibili, che tanto si sono prodigate affinché il gigantesco ingranaggio funzionasse per oltre quattro ore senza incepparsi.
Certo, l’evento è stato concepito soprattutto per il pubblico “a casa” (a partire dall’amplificazione, purtroppo fastidiosa, ma necessaria alla ripresa televisiva), il cartellone era forse fin troppo denso (con effetto indigestione dietro l’angolo), certe scelte si sono rivelate opinabili (tipo proporre una coreografia decorativa sulle note del Dies Irae) e chi era nell’anfiteatro non ha potuto apprezzare le due esecuzioni trasmesse in differita dalla Casa di Giulietta (dove Mariangela Sicilia ha intonato “Oh! quante volte, oh quante”, da I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini) e dal Ponte di Castelvecchio, sfondo dell’invettiva di Rigoletto (Luca Salsi) in “Cortigiani, vil razza dannata”. Ma tutte queste cose passano in secondo piano davanti alla volontà di restituire all’opera la sua dimensione più popolare e farla arrivare al maggior numero di persone possibile.
La parte iniziale del programma, orientata sul versante sinfonico-corale e ad appannaggio esclusivo di Muti, ha subito alzato l’asticella a un livello altissimo con la caleidoscopica Ouverture rossiniana del Guillaume Tell, la raffinata Sinfonia della Norma belliniana, lo struggente coro “Patria oppressa” dal Macbeth verdiano, la palpitante Sinfonia e l’immancabile “Va, pensiero” da Nabucco, l’evocativo Intermezzo di Manon Lescaut e il magnetico Preludio con coro da Mefistofele di Arrigo Boito. La grandezza del Maestro (capace di condurre i musicisti verso punte di autentica eccellenza) non si può definire a parole: va ascoltata, tenendo bene a mente che, se (come afferma lui stesso) «... la lirica è un’arte seria», il riconoscimento UNESCO «non è un punto di arrivo, ma un impegno per il futuro. Che ci coinvolge tutti, per tramandare al meglio questo patrimonio che merita di stare nell’olimpo della musica di tutti i tempi.»
Per la sfilata delle star dell’opera, la bacchetta è passata nelle mani del M° Ciampa, che ha retto con solidità ed efficienza i due terzi rimanenti della serata. Complice il centenario pucciniano, la maggioranza del programma è stata dedicata al Sor Giacomo ed ecco quindi Tosca (“E lucevan le stelle” del tenorissimo Jonas Kaufmann e il monumentale “Te Deum” intonato con perizia da Luca Salsi), La Bohème (dalla dolcezza disarmante di Juan Diego Flórez in “Che gelida manina” alla voluttuosa Musetta di Juliana Grigoryan in “Quando men vo”, passando per la “Vecchia zimarra” del bravo Gianluca Buratto), Madama Butterfly (la poetica danza di Bolle e Manni sul Coro a bocca chiusa e la trepida esecuzione di “Un bel dì vedremo”, per lucente voce di Eleonora Buratto), Gianni Schicchi (ancora Mariangela Sicilia, emozionata ed emozionante in “O mio babbino caro”) e Turandot (con l’intensità di Rosa Feola in “Tu che di gel sei cinta” e la spavalderia di Vittorio Grigolo in “Nessun dorma”). Ma non potevano mancare Giuseppe Verdi (la Marcia trionfale di Aida, “La donna è mobile” affidata all’ottimo Flórez, “Di quella pira” al promettente Galeano Salas e il brindisi della Traviata alla coppia Grigolo-Feola), Gioachino Rossini (Nicola Alaimo ha riproposto il suo spumeggiante Barbiere di Siviglia in “Largo al factotum”), Pietro Mascagni (l’Intermezzo di Cavalleria rusticana, danzato dal divo Bolle), Ruggero Leoncavallo (“Vesti la giubba” del vigoroso Brian Jagde), Gaetano Donizetti (quando si vuole “Una furtiva lacrima”, si chiama Francesco Meli), Vincenzo Bellini (l’eterea “Casta Diva” di Jessica Pratt) e Umberto Giordano (“Nemico della patria” intonato con classe da Ludovic Tézier). C’è stato spazio persino per un titolo non italiano, ma areniano al cento per cento: Carmen di Georges Bizet, assegnata alla rivelazione Aigul Akhmetshina, affiancata da Sofia Koberidze e Daniela Cappiello ne “Les tringles des sistres tintaient”. Naturalmente, gli applausi sono stati tantissimi e per tutti.
Non sappiamo ancora se questo tipo di serata diventerà (come auspicato dai conduttori) un appuntamento fisso annuale, ma di sicuro la prossima estate le Terme di Caracalla ospiteranno un evento analogo, imperniato sul tema del “Sacro nell’Opera” e inserito nel corollario delle celebrazioni del Giubileo 2025.

20240609_Vr_03_Turandot_MicheleSpotti_EnneviFotoTurandot – 8 giugno 2024
Assemblato nel 2010 e impreziosito dai costumi del Premio Oscar Emi Wada, l’allestimento areniano di Turandot firmato da Franco Zeffirelli si conferma uno di quegli esempi di “usato sicuro” che continuano a fare la fortuna dell’anfiteatro veronese. Chi non ha mai assistito a una delle repliche, vuole (giustamente) rimediare e chi conosce già lo spettacolo lo rivede sempre con piacere. Si può discutere quanto si vuole sull’horror vacui zeffirelliano (fra schiere di comparse e profluvi di dettagli preziosi) e sulla creazione di una Cina poco “storicamente attendibile” (ma non era il libretto a dire “al tempo delle favole”?...), nonché sul fatto che il modo di fare teatro sia cambiato, ma al momento dell’apertura della reggia imperiale (scena clou del secondo atto) anche lo spirito più polemico è costretto a tacere per un momento e a riconoscere di essere davanti a qualcosa di fantastico. Fantastico nel senso letterale del termine, ossia capace di trascendere la realtà in quanto frutto di un immaginario avulso dalle limitazioni del nostro mondo.
Dopo l’apertura mediatica della sera precedente, tocca dunque a Turandot il compito di inaugurare il 101° Festival nel modo più classico. Sul podio arenano debutta il giovane Michele Spotti (classe 1993 e Direttore musicale dell’Opera e dell’Orchestra Filarmonica di Marsiglia), che supera brillantemente la sua prima concertazione in uno spazio tanto vasto, mantenendo saldamente le fila vocali e strumentali e meritandosi un lungo applauso non solo da parte del pubblico, ma degli orchestrali stessi. Coadiuvato dall’eccellente lavoro di preparazione svolto sul Coro da Roberto Gabbiani, Spotti può ricamare sulle lucentezze e i colori (anche più cupi) dell’Incompiuta, esaltandone la forza appassionata e la dimensione iniziatico-fiabesca.
Nei panni della Principessa di Gelo, troviamo Ekaterina Semenchuk, la quale, a pochi mesi dal debutto come Turandot al Liceu di Barcellona, rimarca come il ruolo possa essere affidato anche a un mezzosoprano con adeguate doti vocali e drammatiche. La sua caratterizzazione del personaggio risulta giocata sulla dimensione dell’incanto, che la rende prima una sorta di Grazia crudele e che viene poi rotta dal bacio di Calaf, svelandone così la natura più fragile e vulnerabile.
Ormai beniamino del pubblico areniano, Yusif Eyvazov ripropone il suo ardente Calaf , riuscendo a dimostrare (ancora una volta) come la preparazione musicale, la padronanza scenica e l’intelligenza interpretativa possano surclassare un timbro che non è certo stato favorito da Madre Natura.

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Il cuore va però a Mariangela Sicilia e alla sua meravigliosa Liù, all’apparenza dolente eppure fieramente combattiva, capace di prodursi sia in filati di eterea dolcezza, sia in slanci tragici dal forte impatto emotivo. Più che meritata l’ovazione dopo il suo commovente sacrificio.
La morte della “piccola Liù” permette inoltre a Riccardo Fassi di congedarsi dal suo Timur con un’ultima, straziante scena, dando così pieno compimento a una performance nobilmente solida.

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Ben assortite, vocalmente efficaci e amabilmente complici le tre maschere, anche se, fra il Ping di Youngjun Park e il Pong di Matteo Macchioni, emerge il Pang di Riccardo Rados, artista in continua crescita a cui andrebbe offerta qualche opportunità in più.
Chiamato a sostituire all’ultimo come Imperatore Altoum (al posto dell’annunciato Piero Giuliacci), Carlo Bosi si conferma quel “salvatore della patria” che i teatri rischiano di dare per scontato.
Completano con professionalità il cast Hao Tian (Mandarino), Eder Vincenzi (Principe di Persia), Grazia Montanari e Mirca Molinari (ancelle di Turandot). Lodevole anche al Coro di voci bianche A.d’A.Mus, ben guidato da Elisabetta Zucca.
Arena nuovamente gremita, pubblico festante, ovazioni per tutti… e lanci di fiori per il M° Spotti.
(il servizio si riferisce alle serate di venerdì 7 giugno e sabato 8 giugno 2024)

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Crediti fotografici: Ennevi Foto per la Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura in alto: il direttore Francesco Ivan Ciampa
Sotto in sequenza: una bella panoramica dell'Arena gremita di pubblico; Riccardo Muti sul podio dell' orchestra della "Grande Opera Italiana Patrimonio dell’Umanità"
Nella miniatura al centro: il direttore Michele Spotti sul podio della Turandot
Sotto in sequenza: la scena della reggia disegnata da Franco Zeffirelli; Ekaterina Semenchuk (Turandot) e Yusif Eyvazov (Calaf); Mariangela Sicilia (Liù); le tre maschere Youngjun Park, Matteo Macchioni e Riccardo Rados con Yusif Eyvazov; scena del funerale di Liù con un addolorato Timur interpretato da Riccardo Fassi





Pubblicato il 28 Aprile 2024
In scena nel Teatro Verdi di Trieste il capolavoro di Gioachino Rossini tratto da Perrault
Ottima la Cenerentola servizio di Rossana Poletti

20240428_Ts_00_LaCenerentola_LauraVerrecchia_phFabioParenzanTRIESTE - Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”. Come ben racconta Francesco Bernasconi la nascita della Cenerentola di Gioachino Rossini fu avventurosa: “Il soggetto previsto era ‘Ninetta alla corte’, tratto da una commedia francese leggera e satirica, considerato immorale e assolutamente inadatto a essere rappresentato nella capitale dei Papi. Non c’è tempo di salvare la situazione, e la prima del nuovo lavoro di Rossini viene rinviata alla fine di gennaio del 1817. Pochi giorni prima di Natale il librettista Jacopo Ferretti, il compositore, l’impresario e un rappresentante della censura si incontrano quindi per concordare un nuovo libretto.
Comincia qui il racconto di Ferretti, che ricorda di aver proposto numerosissime alternative, tutte rifiutate o per ragioni di costi, o per una eccessiva serietà non adatta alla stagione di carnevale, o perché non facilmente adattabili alla compagnia di canto a disposizione. Ormai stremato, sbadigliando, Ferretti mormora «Cenerentola!»... Rossini, che nel frattempo si era sdraiato su un divano e si era quasi addormentato, si riscuote e chiede provocatoriamente al librettista se avrebbe il coraggio di ridurre a opera la fiaba, e la risposta ha lo stesso tono di sfida «Se lei ha il coraggio di musicarla, avrà i primi versi domani mattina!»

20240428_Ts_01_LaCenerentola_CarlottaVichiCarloLeporeFedericaSardella_phFabioParenzan 20240428_Ts_02_LaCenerentola_CarloLepore_phFabioParenzan

20240428_Ts_03_LaCenerentola_facebook_phFabioParenzan

E fu così che l’opera fu pronta in sole tre settimane. Certo Rossini saccheggiò, come spesso accadeva, arie già composte per altri lavori: la sinfonia tratta dalla Gazzetta e l’aria finale di Angelina/Cenerentola colta dall’aria finale di Almaviva del Barbiere di Siviglia, opera composta anch’essa in pochissimo tempo esattamente un anno prima. E poi si fece aiutare da Luca Agolini per i recitativi e le arie di Alidoro e Clorinda. Successivamente compose una nuova aria per Alidoro, che è quella utilizzata per la rappresentazione in scena al Teatro Verdi di Trieste, in questo allestimento che riprende quello della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova del 2022, che a sua volta si affidava “alle suggestioni di uno straordinario artista Emanuele Luzzati”, come hanno dichiarato i due registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi.
Il libretto di Jacopo Ferretti, modifica per le esigenze del tempo e dell’impiego delle parti buffe, alcuni degli accadimenti contenuti nella favola di Perrault. La matrigna in realtà è un patrigno, che si è mangiato il patrimonio lasciato dalla madre ad Angelina, ha un castello che va in rovina e vuole che a sposare il principe sia una delle sue figlie, non la figliastra Cenerentola a cui ha da subito, morta la madre, riservato il ruolo di serva. La bella fatina è sostituita da un più serio e reale Alidoro, precettore del principe, che persegue la morale della sposa giusta, onesta, buona e disinteressata. La scopre in Cenerentola e creerà i presupposti affinché il principe la trovi e la sposi. La scarpetta di cristallo è sostituita dal braccialetto gemello: avrebbe potuto una donna mostrare la caviglia nel 1817, anno del debutto dell’opera?
Questo allestimento triestino è un gran successo, il pubblico applaude alla fine di ogni aria, si sofferma particolarmente su alcuni protagonisti: Laura Verrecchia, una Cenerentola a cui è chiesto di essere l’unico personaggio serio dell’opera buffa, la cui forza espressiva, la voce potente e dal colore caldo rendono l’Angelina che il Ferretti descrive; Carlo Lepore (Don Magnifico) e Giorgio Caoduro (Dandini) sono all’opposto i due comici per eccellenza, capaci di interpretare con una ricchezza di mimica e personalità i loro ruoli, mostrando una perfetta padronanza vocale nelle arie, a loro assegnate, non sempre agili.
L’ottimo Matteo D’Apolito (Alidoro) si presenta in scena vestito da mendicante per saggiare i comportamenti delle tre sorelle, soltanto Angelina gli darà un pezzo di pane, ripresa a male parole dalla due sorellastre.

20240428_Ts_04_LaCenerentola_finale_phFabioParenzan

Carlotta Vichi (Tisbe) e Federica Sardella (Clorinda) non mollano mai i loro personaggi di stupide, fatue e cattive ragazze, dall’inizio alla fine non si smentiscono mai.
Dave Monaco (Don Ramiro, il principe) è calzante nel fisico e in quella sua voce tenorile che mostra una capacità notevole negli acuti piuttosto impervi.
L’Orchestra del Teatro Verdi esegue brillantemente tutta l’opera, diretta da un ispirato Enrico Calesso.
Anche il Coro del Verdi, diretto da Paolo Longo, realizza un’ottima interpretazione. La regia lo fa entrare in scena come un esercito di soldatini di piombo che si muovono rigidamente e scompostamente. I servi di scena sono chiamati a sistemare questo buffo esercito in riga, ma non si comprende perché recitino la parte degli ubriachi.
I bei costumi, stravaganti e colorati come devono essere nelle fiabe, sono ripresi da Nicoletta Ceccolini dai disegni originali di Lele Luzzati. Solo le luci denotano qualche cedimento qua e là.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 26 aprile 2024)

Crediti fotografici: Fabio Parenzan per il Teatro Verdi di Trieste
Nella miniatura in alto: Laura Verrecchia (Cenerentola)
Al centro, in sequenza: Carlotta Vichi (Tisbe), Carlo Lepore (Don Magnifico), Federica Sardella (Clorinda); ancora Carlo Lepore; un assieme con tutti i protagonisti
Sotto: panoramica di Fabio Parenzan sulla scena finale dell'opera






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sevizio di Athos Tromboni FREE

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Classica
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servizio di Athos Tromboni FREE

20240512_Ra_00_RavennaFestival_RiccardoMuti_phZaniCasadioRAVENNA - E così l'11 maggio dentro un Palazzo De Andrè stipato di pubblico all'inverosimile (3500 posti a sedere la capienza dichiarata) è iniziata la trentacinquesima edizione del Ravenna Festival, quest'anno sulle corde d'una frase biblica, E fu sera e fu mattina..., sottotitolo della manifestazione mutuato dal più celebre "leitmotiv" della
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servizio di Silvia Iacono FREE

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servizio di Ramón Jacques FREE

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Quando si entra nel magico mondo di La fanciulla del west non si può non essere rapiti dalla meravigliosa
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