Pubblicato il 16 Febbraio 2025
Lo storico capolavoro di Giuseppe Verdi e Arrigo Boito decontestualizzato dalla regia creativa
Otello sotto il protettorato britannico intervento di Athos Tromboni

20250216_Ro_00_Otello_IwonaSobotkaRobertoAronica_phNicolaBoschettiROVIGO - «Quest'anno non ho più fatto l'abbonamento alla Lirica... sai, queste regie moderne mi fanno uscire delusa dal teatro...» è il commento rubato dal vostro cronista ad una spettatrice di terza fila di platea, venerdì 14 febbraio scorso nel Teatro Sociale di Rovigo. E non è che il cronista, seduto in seconda fila, abbia poi fatto molto per non udire il commento. Non era un sussurro, era una frase bella e sonora che la signora di terza fila rivolgeva nell'intervallo alla sua vicina di posto: il cronista si è voltato, giusto perché il dovere-diritto di cronaca è inalienabile per un giornalista, e ha verificato trattarsi di una elegante signora più vicina alla terza età che alla media età. Del resto, tutto il teatro era gremito di quel pubblico lì: quello della terza età, il pubblico che è lo "zoccolo duro" dell'opera lirica; di giovani ve ne erano pochissimi (Rovigo fa testo come tutti gli altri teatri d'opera: i giovani raramente sono la maggioranza del pubblico nelle serate d'opera) e quella frase lapidaria, nel gusto certamente personale della spettatrice ma non per questo insignificante, è la "consegna" di cui dovrebbero tenere un po' più conto i direttori artistici dei teatri e festival e soprattutto i registi, gli scenografi, i costumisti.
Insomma, un Otello verdiano inscenato verso la fine dell'Ottocento non ha soddisfatto qualcuno/qualcuna del pubblico rodigino. Questo pubblico insoddisfatto era la maggioranza? Una parte non maggioritaria eppure significativa? Oppure una risicata minoranza di spettatori? I melomani di Rovigo possono essere considerati un campione significativo degli appassionati d'opera italiani, oppure no? Occorrerebbe un conteggio - magari all'uscita dagli spettacoli d'opera - per sondare in modo anonimo il pronunciamento degli spettatori. Una sorta di televoto anonimo attraverso il quale i teatri e festival potrebbero sondare i gusti del pubblico presente alle serate; e pagante. Pagante. Pagante!

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Non mancano certo - oggi - gli strumenti per attivare un sondaggio di questa fatta. Manca la volontà dei teatri.
Otello il Moro di Venezia è una tragedia in prosa e in versi che William Shakespeare scrisse intorno al 1604 tratta dalle cento novelle veneziane di Gianbattista "Cintio" Giraldi e narra (forse) la vicenda di Francesco De Sessa noto come "il capitano moro" imprigionato per un delitto commesso sull'isola di Cipro e portato in catene a Venezia nel 1544 per essere giudicato e condannato.
Questa puntualizzazione storico-letteraria ci serve per dire che Cipro fu governata dalla Serenissima Repubblica di Venezia dal giorno dell'acquisto dell'isola (1489) fino al 1571, quando la stessa isola fu conquistata dall'Impero Ottomano.
La vicenda dell'influenza veneziana su Cipro è stata narrata (tre giorni prima della messa in scena dell'opera Otello nel Teatro Sociale di Rovigo) dal giornalista, studioso di eventi storici veneti e polesani, Maurizio Romanato che in una interessante conferenza nel Ridotto del Sociale ("Cipro da Venezia ai Turchi") ha spiegato con dovizia di particolari quale fosse l'ambiente storico in cui ha preso vita il dramma shakespeariano, ma ha anche animato l' Otello di Giuseppe Verdi su libretto di Arrigo Boito (1887) e quello precedente di Gioachino Rossini su libretto di Francesco Berio di Salsa (1816).
Tutto questo (la Serenissima Repubblica di Venezia, la vicenda del "capitano moro", l'illuminato dominio veneziano su Cipro) avrebbe potuto suggerire di attenersi - quantomeno nella scenografia e nella messa in scena - a una pagina che è storia dell'occidente vs/oriente, storia della letteratura, storia della musica. E invece no. Si arzigogola, anziché documentare. Si dà la prevalenza all'inventiva anziché allo studio. Si sperimenta anziché trarre dalla filologia storica, musicale, sociologica, gli elementi di una rappresentazione. E si colloca tutto in un ambiente pressoché neutro, impersonale, decontestualizzato: cioè si fa della para-fantascienza, nel nome della libertà e della creatività artistica.

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E allora che succede? Succede che nel Terzo Millennio il teatro musicale sembra non essere più (e forse non sarà più) supporto propedeutico di testimonianze storiche. Non educherà alla conoscenza (compito non tanto dei compositori, quanto dei pronunciamenti degli intellettuali illuminati di ogni epoca e paese) ma stimolerà il disimpegno dallo studio (a volte certosino, spesso critico, ma sempre necessario) di fatti e vicende storiche. Così il teatro musicale non sarà rappresentativo di un incontestabile sapere collettivo, ma ostaggio dell'improvvisazione immaginifica di qualche individuo.
Ma chi l'ha detto che l'opera lirica, la musica, la sua storia, dovrebbero essere una propedeutica del sapere collettivo e non una fantasia immaginifica spalmata sugli individualismi? Ovviamente nessuno. Ma lo impone una necessità urgente: basta prendere in considerazione le statistiche che ci dicono e descrivono la povertà culturale dei nostri rampolli, della gioventù del nostro continente, la loro tendenza a omologarsi acriticamente nel villaggio globale per il quale è sufficiente conoscere 200 parole e basta per esprimersi: ed essere più che mai "felicemente" confinati nella moltitudine bruta; mentre nell' altrove pochi oligarchi (anche ticoon di potenti strumenti di comunicazione) spadroneggiano sul mondo intero imponendo il loro credo.
L'impegno della intellighenzia più sensibile del nostro tempo dovrebbe esserne convinta e prendere posizione. Certo l'opera lirica non sarà l'antidoto, ma rimanendo confinata dentro a individuali fantasie immaginifiche di registi e loro correi, anziché farsi testimone di eventi storici per i quali i compositori (e soprattutto i letterati, i librettisti, per intenderci) l'hanno creata trovando l'ispirazione creativa dal contesto descrittivo, contribuirà sicuramente all'appiattimento qualunquista della conoscenza, alla non-cultura, ponendosi sulla parallasse dei livelli esoterici anziché su quelli storicistici.
Ma veniamo (finalmente) all' Otello di Giuseppe Verdi visto a Rovigo: il regista Italo Nunziata spiega così la sua scelta creativa di decontestualizzazione: «... La gelosia è una prigione nella quale l'individuo si richiude ... Lo spazio scenico è uno spazio chiuso, una sorta di spazio prigione ... e la tragedia (di Otello e Desdemona) è ambientata anche per i costumi e gli oggetti  negli ultimo decenni del 1800, quasi ad evidenziare  laddove possibile  la natura di "dramma borghese" nello svolgersi dell'azione e del sentimento ... (ed è) un mondo dove chi viene dal di fuori sarà visto e rimarrà sempre come "estraneo e straniero" ... »

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Se lodevole rimane l'intenzione del regista (una dichiarazione di biasimo alla mentalità che confina il "diverso" - nero o asiatico che sia - dentro i ranghi bassi della considerazione civile) non altrettanto lodevole è il risultato del racconto scenico. Non c'è - nello spettacolo visto a Rovigo - sentore di razzismo verso Otello "il negro" tale da far parteggiare emotivamente il pubblico per lui, perché questo aspetto non era minimamente nelle intenzioni del compositore e del librettista. E ogni espansione interpretativa (anche in chiave sociologica e/o umanitaria, nonché progressista) è destinata e fare cilecca.
Durante la recita vista nel Teatro Sociale ci siamo chiesti come fosse possibile che il personaggio di Lodovico (ambasciatore nel 1544 a Cipro della Serenissima Repubblica di Venezia) entrando in scena in vesti non più congeniali all'epoca ma da "borghese" fin-de siecle, pronunciasse questo saluto tendendo a Otello una pergamena avvolta in mano: «Il Doge ed il Senato / salutano l'eroe trionfatore / di Cipro: io reco nelle vostre mani / il messaggio Dogale»; e tutto ciò proprio in quella specifica ambientazione di fine Ottocento voluta dalla regia, trascurando che l'isola in quei decenni era ormai abitata da greci e turchi e governata sotto il ferreo controllo del protettorato britannico? Decontestualizzazione in scena: cioè bugia storica.
E poche battute più avanti, quando Otello al cospetto dell'ambasciatore veneziano dichiara di accettare la sua sostituzione come governatore di Cipro cedendo il comando al rivale Cassio: «La parola Ducale è nostra legge» come si concilia, nelle scelte registiche, con l'originale ambientazione storica così ben studiata da Shakespeare prima e da Arrogo Boito poi? Altra decontestualizzazione per scelta della regia: cioè altra bugia storica. Ma si potrebbe continuare.
Conosciamo da tempo i lavori di Italo Nunziata, sappiamo del suo indiscutibile approccio professionale ai testi, lo abbiamo recensito più volte raccontando i suoi allestimenti: ma in questa circostanza, sul piano della critica più storiologica che musicale, diciamo che anche stavolta ci siamo trovati di fronte ad una forzatura scenica germinata dentro il solco delle imperanti mode trasgressive dei registi "innovatori". Cioè dentro un deja-vu conformista.
Nulla da eccepire su scenografie, costumi e luci (curate da Domenico Franchi, Artemio Cabassi e Fiammetta Baldiserri) perché fatta la scelta "contenutistica" tutto è stato omologato proprio alla predetta scelta contenutistica.
Sul piano musicale le cose non sono risultate al top: il tenore Roberto Aronica - pur bravo e diligente - non possiede la vocalità di Otello: il suo colore vocale chiaro e sostanzialmente belcantista se da un lato rispetta in gran parte il dettato delle note verdiane, nella zona del superacuto perde di consistenza sonora ed egli non mostra il coraggio (come altri belcantisti impegnati nel ruolo) di passare il canto dalla consuetudine del lirismo spinto a quello del lirismo puro della mezza voce e delle seduttive atmosfere dell'emissione a fior di labbra; come hanno fatto o stanno facendo altri tenori belcantisti che affrontano il ruolo. Ma in tutto questo forse la decisione non spettava a lui, quanto - piuttosto - al maestro concertatore.
Disomogenea la prestazione di Iwona Sobotka nel ruolo di Desdemona: ha mostrato una bella capacità di controllo nel medio e nel grave, bel timbro espresso su quei registri della partitura, ma quando deve salire all'acuto la sua vocalità si "sbianca" perde coloratura e il canto somiglia a un grido più che a un canto armonizzato: possiamo ipotizzare, qui, che sia una menda tecnica (quindi correggibile ed eliminabile) piuttosto che un difetto congenito. Perché in alcuni momenti il suo canto è stato veramente soave e convincente (il colore delle mezze voci, il legato, il fraseggio) e quindi personalmente la attendiamo a nuovi impegni per verificare il portato di questo odierno rilievo critico.
Angelo Veccia è stato - secondo noi - il migliore del cast (nel ruolo impegnativo di Jago) per quella naturale vocalità morbida e suadente, ma anche per l'imperio necessario nelle impennate del canto di forza, quando il canto di forza si manifesta come apogeo dell'espressione significativa: la sillabazione di questo baritono è risultata chiarissima e comprensibile, l'intonazione era sempre sotto controllo, il gesto scenico è stato quello da consumato protagonista dei palcoscenici d'opera.
Lodevole il resto del cast, con il bravissimo (e applauditissimo) tenore Oronzo D'Urso (Cassio), Angelo Galli (Roderigo), Victor Shevchenko (Lovovico), Lorenzo Liberati (Montano), Nikolina Janevska (Emilia) e Eugenio Maria Degiacomi (un Araldo).
La nostra menzione particolare va al Coro di Voci Bianche del Conservatorio "Nicolini" di Piacenza istruito da Giorgio Ubaldi che ha brillato nella parte di propria competenza; ed un bravi! convinto anche al Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.
Resta da dire della concertazione di Christopher Franklyn sul podio dell'Orchestra Filarmonica Italiana: un'esecuzione di routine, tranquilla e tutto sommato senza lode né infamia, con una assai poco incline propensione a sollecitare e incoraggiare i cantanti in scena; e (purtroppo) con una realizzazione dei concertati assai scolastica.

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Pubblico delle grandi occasioni, elegantissimo e partecipe, che non ha mancato di applaudire calorosamente tutti i protagonisti al termine dello spettacolo. E se il pubblico ha sempre ragione ...
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 14 febbraio 2025)

Crediti fotografici: Nicola Boschetti per il Teatro Sociale di Rovigo
Nella miniatura in alto: Iwona Sobotka (Desdemona) e Roberto Aronica (Otello) nel duetto del primo atto
Sotto, in sequenza: Angelo Veccia (Jago); Iwona Sobotka (Desdemona); ancora Angelo Veccia con Roberto Aronica (Otello); Andrea Galli (Roderigo), Victor Shevchenko (Lodovico), Oronzo D'Urso (Cassio); Iwona Sobotka e Roberto Aronica in scena
Al centro: ancora Iwona Sobotka e Roberto Aronica in scena
Sotto, in sequenza: vari momenti con Angelo Veccia, Roberto Aronica e Iwona Sobotka; il Coro di Voci Bianche del Conservatorio "Nicolini" e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza
In fondo: scene finali dell'Otello verdiano e saluti del cast
 





Pubblicato il 28 Gennaio 2025
Proveniente dal Teatro del Giglio di Lucca č approdato a Rovigo il capolavoro di Umberto Giordano
Di Chénier non ci si stanca mai intervento di Athos Tromboni

20250128_Ro_00_AndreaChenier_FrancescoPasqualetti_phNicolaBoschettiROVIGO - Arriva collaudato l' Andrea Chénier di Umberto Giordano al Teatro Sociale, proveniente da Lucca: l'allestimento è una coproduzione di Lucca e Rovigo, appunto, con anche il Teatro Verdi di Pisa, il Grande di Brescia, il Fraschini di Pavia, il Sociale di Como e il Ponchielli di Cremona. La scelta del regista Andrea Cigni e del suo staff (scene di Dario Gessati, costumi di Chicca Ruocco, luci di Fiammetta Baldiserri e Oscar Frosio, coreografia di Isa Traversi) è di mantenere la messa in scena nello spirito di un libretto perfetto quale quello approntato, per il compositore foggiano, da Luigi Illica, emiliano di Castell'Arquato: così l'ambiente scelto dal regista è quello del periodo 1789-1894, cioè l'apoteosi e morte del poeta vero, l'Andrea Chénier della Rivoluzione Francese, lui, monarchico costituzionalista iscrittosi al club dei Foglianti che contrastava l'intransigenza politica e gli atteggiamenti forcaioli dei Giacobini di Robespierre.
Chi volesse un'anticipazione di come questo allestimento è stato accolto da critica e pubblico di Lucca poche settimane fa, può cliccare qui .
Diversamente è andata a Rovigo, dove sono cambiati alcuni cantanti rispetto a Lucca.
Sulla regia nulla da aggiungere, se non un plauso per come hanno recitato, muovendosi in scena, solisti e coro.

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E un plauso anche alla coreografa Traversi per la bella parentesi del ballo del Fauno e della sua compagna, la Fauna, nella festa del primo atto in casa della contessa di Coigny: danza contemporanea, dove prese, angolature e spigolature di gesti, linguaggio del corpo, si sono fusi armonicamente con l'atmosfera tardo settecentesca dei costumi degli aristocratici francesi.
Un plauso anche al direttore, Francesco Pasqualetti, che è riuscito a "domare" l'Orchestra Regionale Filarmonia Veneta conducendola dentro ad uno standard esecutivo per il quale abbiamo espresso molte volte i nostri elogi: belle le veemenze tratte dalla partitura, morbido il fraseggio nei momenti lirici, precisi gli attacchi delle varie sezioni e così gli stop, rapporto buca/palcoscenico quasi sempre in sintonia... Quasi sempre, perché laddove un cantante o una cantante ha problemi d'emissione o di dinamica, se l'orchestra spinge sui volumi la colpa se la prende il direttore che "copre". Bisognerebbe dire, più veritieramente, non che "copre", ma che "salva" il cantante... prendendosi - appunto - la colpa.
Il miracolo, a Pasqualetti, non è invece riuscito nei confronti del tenore Martin Muehle, chiamato a sostituire nel ruolo del titolo l'annunciato Michael Spadaccini; se da un lato Muehle dimostra di non temere la zona acuta e superacuta, dall'altro lato offre un canto di gola e di petto che connatura la sua cifra stilistica: quindi nel medio e nel grave, così come nel canto di conversazione, la sua voce pare "secca", priva di armonici, a tratti sgradevole. Peccato, perché il fisico e il gesto scenico sono da protagonista del repertorio lirico spinto e drammatico.  
Apprezzata molto dal pubblico (ma anche da chi scrive questa cronaca), la prestazione del soprano Maria Teresa Leva che ha reso una Maddalena di Coigny pienamente centrata nel personaggio: centrata scenicamente (la sua mimica è da attrice consumata) e vocalmente (il suo canto in maschera e i passaggi di registro sono eseguiti con padronanza, il suo timbro è molto bello); la Leva è stata a lungo applaudita soprattutto dopo l'esecuzione della terribile romanza "La mamma morta".
Il campione della serata, la medaglia d'oro nella competizione del cast, spetta però al baritono Kim Gangsoon protagonista di una prestazione maiuscola nei panni di Carlo Gérard: ricordiamo qui che la figura di Andrea Chénier corrisponde al poeta vero (ecco il punto principale dove è manifesta la perfezione del libretto di Illica), anche il personaggio di Gérard è ispirato a una persona vera: si tratta del crudele tagliatore di teste Jean-Lambert Tallien, rivoluzionario giacobino voltagabbana, dapprima fedelissimo di Robespierre e poi capo del "ribaltone" che portò Robespierre alla ghigliottina e al graduale superamento dell'epoca del Terrore. Certo la figura di Gérard, sempre nel libretto di Illica, è crudele come fu crudele Tallien (aria di sortita del primo atto "Son sessant'anni o vecchio" e il monologo del terzo atto "Nemico della patria?"), ma poi il suo personaggio si stempra nel pentimento e s'addolcisce fino a diventare filantropicamente il difensore di Chénier nel tentativo di evitare al poeta l'esecuzione capitale.
Brava e degna di encomio Shay Bloch nel personaggio della serva Bersi.
Deludente invece Alessandra Palomba nel doppio ruolo di Contessa di Coigny e Madelon: voce traballante, intonazione fuori controllo: evidentemente gli anni passano per tutti/tutte.

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Corretto il resto del cast con Alessandro Abis (Roucher), Fernando Cisneros (Mathieu e Pietro Fléville), Marco Miglietta (Un incredibile e l'Abate), Gianluca Lentini (Schmidt/Fouquier/Tinville), Giorgio Marcello (il Maestro di casa e Dumas).
Preparato il Coro Arché di Pisa diretto dal bravo Marco Bargagna.
Pubblico numeroso ma non da tutto esaurito, molto soddisfatto e plaudente a lungo al termine dell'opera.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 24 gennaio 2025)

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Crediti fotografici: Nicola Boschetti per il Teatro Sociale di Rovigo
Nella miniatura in alto: il direttore Francesco Pasqualetti
Sotto, in sequenza: belle panoramiche di Boschetti sui costumi; la danza del Fauno e della Fauna; Shay Bloch (Bersi) al centro della scena sventola il tricolore francese
Al centro, in sequenza: Maria Teresa Leva (Maddalena di Coigny) e Martin Muehle (Andrea Chénier); altre panoramiche sui costumi; Martin Muehle e Kim Gangsoon (Carlo Gérard) durante il duello del secondo atto
Sotto: Maria Teresa Leva da sola e con Kim Gangsoon; infine i saluti finali di tutto il cast





Pubblicato il 11 Gennaio 2025
Acclamazioni e ovazioni a Ferrara per l'opera della piccola farfalla giapponese di Giacomo Puccini
Una Butterfly come dev'essere intervento di Athos Tromboni

20250111_Fe_00_MadamaButtefly_ClaudiaPavoneViktorPastoriFERRARA - «Abbiamo voluto fare una Madama Butterfly nel rispetto della realtà giapponese dell'epoca, una realtà di usi e costumi ben diversa dall'immaginario occidentale... così abbiamo tolto nel nostro allestimento e nelle scelte registiche tutte quelle "giapponeserie esotiche" immaginate tra fine Ottocento e inizio Novecento in Europa. Ed io - ci tengo a dirlo - non ho fatto la regia di quest'opera, ma ho fatto la sua messa in scena...»
Così si è espresso Leo Nucci, il grande baritono passato alla regia dopo una straordinaria carriera di cantante, durante la presentazione dell'opera di Giacomo Puccini nel Ridotto del Teatro Comunale "Claudio Abbado".
Questa scelta di Nucci è veramente coraggiosa, coraggiosissima, proprio perché si discosta dalle dominanti regie "moderne" che di moderno hanno il più delle volte solo l'obiettivo della provocazione fine a sé stessa ammantato da una patina di conformismo che sfocia spesso nel deja-vu... un già visto che sa di stantìo.

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L'ambientazione della Madama Butterfly che ha aperto la stagione lirica 2025 del Teatro Abbado è anticipata di qualche anno rispetto al 1904, anno in cui con un fiasco memorabile l'opera di Puccini andò in scena al Teatro alla Scala di Milano: nell'allestimento visto a Ferrara siamo comunque all'inizio del Novecento, e mentre il primo atto è inscenato in un mese generico, il secondo e terzo atto sono ambientati nel mese di aprile, quando si celebra la festa dei ciliegi, ancora oggi molto sentita in Giappone.
«Abbiamo pensato di mettere sul palcoscenico - ha scritto Leo Nucci nelle note di regia - riferimenti simbolici anche legati alla filosofia zen: ad esempio un elemento è il Cerchio Zen che significa illuminazione, forza, universo. Altro elemento è il Torii (meglio conosciuto in occidente con il termine di "Porta Rossa", ndr): il Torii rappresenta la separazione tra la vita reale e quella spirituale, una credenza popolare: il primo passaggio sotto l'arco di Torii significa la prima forma di purificazione. Entrambi i simboli significano fortuna e prosperità. Abbiamo inoltre lavorato alla ricerca di costumi assolutamente originali.»
Le parole di Leo Nucci richiamano in noi il ricordo dei contenuti di alcune conversazioni fatte con Franco Zeffirelli e - dopo la sua scomparsa - la forza convincente dei messaggi lanciati negli incontri e nelle conferenze musicali fatte insieme con i rappresentanti della Fondazione Zeffirelli di Firenze.
Solenne l'harakiri  finale di Cio Cio San, schiena rivolta al pubblico, perché non c'è nulla da spettacolarizzare per un suicidio d'onore...

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Dunque, non la provocazione o "la estensione" dei significati oltre il loro significante, ma il recupero del rapporto significato/significante nella sua interezza e nella sua incontestabile logica storicizzata. Perché la creatività può certamente allocarsi nell'invenzione tout-court anche quando non pertinente, ma risiede meglio e più realisticamente nella documentazione di fatti dove la pertinenza sia la linea-guida della creazione.
Le scelte di Nucci sono state premiate, a Ferrara, da un applauso interminabile del pubblico (quasi 10 minuti)  al suo apparire sul proscenio a fine recita. Applausi corredati con acclamazioni all'indirizzo del baritono-regista.
Ma i "segnali" di un clima orientale e specificamente giapponese voluti dalla regia si sono colti anche nella concertazione del maestro Matteo Beltrami sul podio di una bravissima Orchestra dell'Emilia-Romagna "Arturo Toscanini" quando, nei momenti musicali dove la scala pentatonica usata da Puccini richiama le atmosfere di quel lontano Paese, il direttore ha scelto tempi rallentati, in sintonia ai rallenties propri di una danza kabuki o di commento a scene del più nobile Teatro del Nð. L'orchestra ha seguito le sollecitazioni del direttore, e i cantanti altrettanto, pur nella fatica di adeguarsi a tempi dove la difficoltà espressiva è maggiore rispetto a ritmi anch'essi lenti ma tuttavia più sostenuti. Il maestro Beltrami ha guidato l'orchestra senza mai abbandonare l'occhio sui cantanti e sul coro, e l'effetto visivo e auditivo era di un ottimale rapporto fra buca e palcoscenico.
Sul cast: grande interpretazione del soprano Claudia Pavone nel ruolo di Cio Cio San; ha dimostrato carattere, personalità, sicurezza dei propri mezzi, colore vocale molto bello, intonazione sempre sotto controllo, acuto svettante e ben timbrato, gesto scenico eccellente. Una vera Butterfly come deve essere. Non a caso gli applausi a scena aperta e le ovazioni a fine recita l'hanno premiata meritoriamente, anche se non ha concesso il bis di "Un bel dì vedremo" come richiesto insistentemente dal pubblico. E qui un inciso: se il pubblico chiede insistentemente un bis, significa che l'artista - celebre o semisconosciuto che sia - ha "bucato" la platea (dove il temine "bucato" è qui metonimico, mutuato dal linguaggio afferente il piccolo schermo televisivo...)
Bravo anche il tenore Angelo Villari nel ruolo di Franklin Benjamin Pinkerton, voce chiara ma salda nella zona acuta, affrontata con canto di petto senza imbarazzi. Molto bello il suo fraseggio che ci ha ricordato l'eleganza e la chiarezza di emissione di un Bergonzi. Lo attendiamo con una certa curiosità ma anche con (nostre) pretenziose aspettative in prove più eroiche e meno patetiche di quel personaggio che è il Pinkerton delineato da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa nel libretto dell'opera.
Ottima la Suzuki di Irene Savignano, voce di un brunito dalla pregevole qualità all'ascolto, timbro più da contralto che da mezzosoprano, gesto scenico convincente e molto naturale, non teatrale ma spontaneo, nel ruolo della sommessa e fedelissima serva di Cio Cio San.
Corretto il Sharpless del baritono Alessandro Luongo che comunque, quando spingeva nell'acuto tenuto, ha manifestato un lieve vibrato non a tutti gradito.
Ottimo scenicamente e vocalmente il Goro di Manuel Pieratelli e da lodare anche tutti i comprimari: Eva Corbetta (Kate Pinkerton), Giacomo Leone (il principe Yamadori), Gaetano Triscari (lo Zio Bonzo), Eugenio Maria Degiacomi (Yakusidè), Fabrizio Brancaccio (il Commissario Imperiale), Lorenzo Sivelli (L'ufficiale del Registro), Betty Makharinsky (la Madre di Cio Cio San), Zhuo Zhixin (la Zia), Yaoo Hayoung (la Cugina), Viktor Pastori (il bravissimo bambino che ha interpretato Dolore). Completavano il cast i mimi Paolo Cignatta e Francesco Tomasi.

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Il coro, adeguatamente preparato, era istruito dal maestro Corrado Casati. Essenziali ma molto suggestive le scene di Carlo Centolavigna. Bellissimi i costumi di Artemio Cabassi. Appropriate le luci di Michele Cremona.
L'allestimento è una coproduzione del Teatro Comunale di Ferrara "Claudio Abbado" e del Teatro Municipale di Piacenza.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 10 gennaio 2025)

Crediti fotografici: Ufficio stampa del Teatro Comunale "Claudio Abbado" di Ferrara
Nella miniatura in alto: il soprano Claudia Pavone (Cio Cio San)
Sotto, in sequenza: Angelo Villari (Franklin Benjamin Pinkerton) con Claudia Pavone; ancora la Pavone con Irene Savignano (Suzuki); panoramica sul bravo coro femminile del Teatro di Piacenza
Al centro: panoramica su scene e costumi della Madama Butterfly disegnata dal Leo Nucci; ancora la Pavone con il piccolo Viktor Pastori (Dolore) e nella scena finale prima dell'harakiri
In fondo, in sequenza: altre panoramiche sull'allestimento visto a Ferrara





Pubblicato il 21 Dicembre 2024
In scena a Rovigo una nuova produzione del lavoro in un atto di Cocteau/Poulenc
Il telefono, la tua voce... intervento di Athos Tromboni

20241221_Ro_00_LaVoixHumaine_EkaterinaBakanova_phNicolaBoschettiROVIGO - La voix humaine. Testo intrigante, regia deludente. Pubblico sparuto in sala e nei palchi del Teatro Sociale; comunque plaudente, quindi soddisfatto. Grazie a Julia Cherrier Hoffmann, l'interprete. Si potrebbe liquidare così, la recensione: con un twett... ah... oggi non c'è più twitter, c'è X... allora come si dice? Si potrebbe liquidare così, la recensione: con una X. Però il pronunciamento del cronista deluso va spiegato, non si può liquidare con una X.
Dunque, cominciamo dal principio, partendo dalla fonte: Jean Cocteau ha scritto per il teatro di prosa La voix humaine nel 1930, poi Francis Poulenc ci ha messo la musica nel 1958. E il vero protagonista della pièce è il telefono. Il telefono a filo. Quello che non ti consente spostamenti oltre la lunghezza del cavo che collega la presa a muro all'apparecchio. Fosse anche (come hanno fatto alcuni registi in anni passati) un filo lunghissimo. Ma un filo. E una cornetta.
20241221_Ro_01_LaVoixHumaine_DavideCavalli_phNicolaBoschettiChe poesia si cela tuttora nella sagoma a barchetta della cornetta, rimasta immutata dai tempi di Cocteau e quelli di Poulenc e su su fino a che il filo non è stato sostituito dall'etere e i pali piantati lungo strade e fossi sostituiti dai satelliti orbitanti intorno a madre Terra.
Allora qual è l'idea scontata per una mise en éspace dei tempi nostri? Ovvio, il telefonino cellulare! Che poi sostituire nella mise en éspace il telefono con il telefonino è già di per sé diminutivo non solo dei volumi, ma anche dei contenuti. Rispetto a Cocteau, s'intende. Che invece, lui, in quel dialogo tra lo stralunato, il mendace e il disperato della protagonista al telefono, di contenuti ne ha messi, annodati a un filo e a delle interferenze sulla linea che originano l'angoscia della protagonista e alimentano i suoi disperati appelli alla centralinista che lasci libera la linea e non la faccia cadere. Altri tempi.
Oggi no, quel testo è persino banale e svuotato di contenuti se lo si attualizza. E mantiene tutti i contenuti, invece, se lo si storicizza. Perché quel testo è testimone non del fatto, ma del tempo. "Il telefono, la tua voce" era lo slogan pubblicitario di quando la Tim si chiamava Sip, un segno del tempo appunto.
Poi la scelta registica è stata quella di ambientare la telefonata della protagonista non in una casa o in un appartamento, ma in una saletta d'ospedale (l'idea non è nuova: rimarrà nei ricordi belli quella regia di Robert Carsen di anni fa a Bologna, quando La voix humaine fu interpretata da una stratosferica Anna Caterina Antonacci...) ci può anche stare; quel che convince di meno (nella mise en éspace del Teatro Sociale di Rovigo) è che la telefonata non è fatta a un uomo vivo, ma a un uomo morto: dunque immaginaria, non reale, allucinata e allampanata.
Anche in questa regia rodigina c'è un filo: è quello della fleboclisi applicata al polso della protagonista, filo che viene più volte strappato e altrettante volte riapplicato da una solerte e silente infermiera in camice verde; ma questo filo è il tramite di una cura fisiologica, non il tormentato oggetto d'una situazione psicologica, come fu (è) il filo del telefono con la cornetta fatta a barchetta.

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La protagonista si muove in scena trascinandosi il trespolo, così il suo gesticolare quale sottolineatura delle emozioni è deprivato del movimento delle mani, l'una impegnata a trascinare il trespolo, l'altra impegnata a reggere il telefonino. Le mani non raccontano, dunque, la tensione delle situazioni (come in altre rappresentazioni viste e apprezzate) ma l'impedimento fisico; e dunque non partecipano al conflitto psicologico.
L'allestimento rodigino non prevedeva l'orchestra, ma il pianoforte. Ai fini espressivi cambia quasi nulla: perché la musica di Poulenc è avara di note e ricca di accenti e accenni percussivi.

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Ottimo il pianista Davide Cavalli, attento e pulito nell'accompagnamento della Julia Cherrier Hoffman.
E lei, la Cherrier Hoffmann, è perfetta interprete d'una donna affetta da disturbo bipolare: brava, brava, brava.
Il colpo di teatro extratestuale è, però, riservato all'ultima scena, là dove il regista Gianmaria Aliverta (curatore anche di scene e costumi) sottolinea nelle note di sala che «... solo alla fine, il pubblico potrà intuire il peso della separazione che l'ha spinta sull'orlo dell'abisso, un abisso che si svelerà con un ultimo, tragico respiro»:  che succede? Semplice: discostandosi da Cocteau la protagonista non precipita nel mal d'amore che sa impietosire mandando in crisi le anime sensibili; né poteva farlo perché il suo uomo è voluto morto in questa mise en éspace; così lei si spara un colpo alla tempia. Una forzatura che nulla aggiunge alla drammatizzazione ben più struggente dell'abbandono. Perché vivere nel dolore ci vuole tanto coraggio, mentre spararsi un colpo è un arrendersi alla codardia.
Confortevole la reazione del pubblico. Tanti applausi, come s'è già detto. Replica domenica 22 dicembre ore 16,00.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 20 dicembre 2024)

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Crediti fotografici: Nicola Boschetti per il Teatro Sociale di Rovigo
Nella miniatura in alto, al centro e sotto: Julia Cherrier Hoffmann
In alto a destra: il pianista Davide Cavalli
In fondo: i saluti del cast a fine recita





Pubblicato il 07 Dicembre 2024
Il Teatro Comunale 'Claudio Abbado' di Ferrara ha aperto molto bene la stagione lirica
Un Flauto davvero magico intervento di Athos Tromboni

20241208_Fe_00_IlFlautoMagico_MassimoRaccanelli_phMarcoCaselliNirmalFERRARA - Ci vuole coraggio per aprire una stagione lirica di buon prestigio quale quella del Teatro Comunale "Claudio Abbado" con un capolavoro come Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Mozart affidando i ruoli principali a giovani cantanti, allievi del corso di perfezionamento tenuto dal maestro Leone Magiera proprio a Ferrara: vero è che si tratta di promettenti artisti, selezionati a suo tempo dopo un vasto giro di audizioni, e inseriti in un’attività triennale che è stata sia di formazione che di produzione; il risultato lo si è visto venerdì sera, 6 dicembre 2024: un risultato che ha confermato una notevole crescita professionale di questi giovani. La testimonianza più probatoria del risultato è data dagli applausi a scena aperta e dalle ovazioni finali che tutti si sono meritati; un'accoglienza calorosissima del pubblico che gremiva il Teatro Abbado fino all'esaurito (sold out, si dice oggi con un inglesismo entrato nella prassi). Il che significa che il coraggio può essere addotto quando la sostanza ha fondamento dentro delle potenzialità fondamentali.
Così, siccome l'onore - in questo caso - va al merito, citiamo tutto il cast come prima notizia di questa recensione: erano in scena Yulia Merkudinova (Pamina), Claudia Urru (Astrifiammante, regina della notte), Younggi Do (Tamino), Dmitrii Grigorev (Sarastro), Gianluca Failla (Papageno), Alessandra Adorno (Papagena), Gianluca Convertino (Oratore), Giulio Riccò (Primo sacerdote), Carlo Enrico Confalonieri (Secondo sacerdote), Gesua Gallifoco, Silvia Caliò e Janessa Shae O'Hearn (le Tre Dame), Khloe Kurti, Lorenzo Pigozzo e Giovanni Maria Zanini (i Tre Fanciulli - "prestati alla produzione dall'Accademia A.Li.Ve), oltre ai figuranti Francesco Ferri, Nicola Franz, Lorenzo Neri, Davide Craglietto, Michele Greco e il mimo (la mima?) Elisabetta Galli.

20241208_Fe_01_IlFlautoMagico_DmitriiGrigorev_phMarcoCaselliNirmal 20241208_Fe_02_IlFlautoMagico_YuliaMerkudinovaGianlucaFailla_phMarcoCaselliNirmal
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La messa in scena di Marco Bellussi ha percorso anche stavolta il credo artistico di questo regista che ormai da più stagioni viene incaricato di "disegnare" un'opera a Ferrara: le sue qualità sono la precisione dei movimenti scenici (solisti e coro), la pretesa della recitazione dei cantanti, l'essenzialità degli arredi e delle attrezzerie, la raffinatezza dei costumi, e un certo fare complessivo che ricorda l'eleganza poetica delle belle cose di pessimo gusto: ma belle appunto. Così il disegno del "suo" Flauto magico diventa proprio una favola immaginifica, una sorta di copula parachimica (cioè, secondo i manuali scolastici, la parte di un "composto" capace di mischiarsi con altri atomi o gruppi per dare sostanze diverse e nuove) che combina insieme le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e le meraviglie di Harry Potter nel paese dei babbani.
Per Bellussi la scena si svolge in una grande biblioteca (e dove se no?) perché è nei libri - fin dai primi incunaboli del libro dei libri, la Bibbia - che si cela la conoscenza ed è attraverso i libri che si disvela la sapienza; sapienza e conoscenza che dovranno essere scoperte dal principe Tamino nel suo viaggio attraverso i pericoli e le privazioni per assurgere al mondo degli eletti e meritarsi l'amore di Pamina. La grande biblioteca è formata da tre scaffali montati su un disco rotante che fa cambiare prospettiva alle scene a seconda che si voglia mostrare o nascondere quel che succede fra gli scaffali, davanti agli scaffali, dietro gli scaffali, sopra gli scaffali; l'effetto cercato è di rivelare comunque quel che c'è in luce e quel che c'è in ombra, il materico e l'esoterico (la scenografia è realizzata da Matteo Paoletti Franzato). Poi ci sono le videoproiezioni sugli scaffali e sui fondali del palcoscenico (curate da Fabio Massimo Iaquone) che conferiscono una sorprendente tridimensionalità alla scena, a volte inquietante, a volte rasserenante. Infine i costumi (belli, di Elisa Corbello) che imitano epoca e abbigliamento del "viandante" di Caspar David Friedrich, la sua osservazione dell'infinito e dell'immanente, che tanta poesia romantica ha ispirato per i Lieder di Schubert, Schumann, Wolf e altri. Stupende, poi, le luci di Marco Cazzola che contribuiscono a rendere suggestiva la narrazione.

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20241208_Fe_07_IlFlautoMagico_YounggiDoYuliaMerkudinova_facebook_phMarcoCaselliNirmal

Sotto il profilo musicale, il direttore Massimo Raccanelli ha confermato la sua preparazione mozartiana già da noi elogiata nella scorsa stagione per la sua conduzione di Nozze di Figaro (anche quell'opera fu messa in scena sotto la direzione musicale di Leone Magiera): ma mentre le Nozze erano su libretto in lingua italiana di Lorenzo Da Ponte, cantate prevalentemente da giovani interpreti italiani, questo Flauto magico è in tedesco, affidato a cantanti prevalentemente italiani e comunque non di madrelingua. E allora che cosa si è udito nel canto soprattutto delle parti a più voci (duetti, terzetti, concertati)? Si è udito un canto sillabico che ha sicuramente facilitato lo spelling melodizzandolo, mentre il ricorso al legato si è avuto solo nelle arie solistiche soprattutto di Pamina e Tamino.
Novità (ma non novità assoluta, perché ogni tanto nei teatri, soprattutto di provincia, viene adottata): il recitato è in italiano, mentre tutto il resto, sorretto o intonato comunque da musica d'accompagnamento (recitativo, arie, parti d'assieme) rimane in tedesco con sopratitoli perfettamente sincronizzati. La parte recitata in italiano si è mostrata comunque sufficiente per dare un significato inequivocabile alla "trama" dell'opera e per favorire l'ascolto attento da parte del pubblico. Sulla concertazione di Raccanelli non ci dilunghiamo se non per dire che ci è piaciuta moltissimo. E questo marca la nostra differenza con altri colleghi critici musicali che hanno invece espresso durante l'intervallo giudizio negativo (lo scriveranno anche nelle loro corrispondenze?) sul direttore d'orchestra.
Sulle voci: ottime le prestazioni di Yulia Merkudinova (Pamina), Claudia Urru (Astrifiammante) e Gianluca Failla (Papageno, il più applaudito a fine recita) e comunque pregevoli tutti, segno di una preparazione meticolosa e di un'applicazione indefessa che dimostrano come il canto lirico possa essere il nerbo, la spina dorsale, insomma l'esempio più probatorio della musica della voce.
Brava l'Orchestra città di Ferrara sotto la direzione di Raccanelli. Ottimo il Coro del Teatro Comunale di Ferrara preparato da Teresa Auletta.  Sorprendente il canto in lingua tedesca dei Tre Geni dell'Accademia A.Li.Ve di Verona.
Soddisfatto il pubblico. Replica domenica 8 dicembre ore 16,00.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 6 dicembre 2024)

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Crediti fotografici: Marco Caselli Nirmal per il Teatro Comunale "Claudio Abbado" di Ferrara
Nella miniatura in alto: il direttore Massimo Raccanelli
Sotto, in sequenza: Dmitrii Grigorev (Sarastro); Yulia Merkudinova (Pamina) e Gianluca Failla (Papageno); Janessa Shae O'Hearn, Gesua Gallifoco e Silvia Calio (le Tre Dame); una pittoresca istantanea del Teatro Abbado; i costumi del Coro e i tre scaffali della biblioteca dove s'immagina l'azione dei protagonisti
Al centro: Younggi Do (Tamino) e Yulia Merkudinova fra i due Sacerdoti Carlo Enrico Confalonieri e Giulio Riccò: panoramica su scene, costumi e proiezioni
Sotto: altra bella panoramica del Teatro Comunale ferrarese






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