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Nel Teatro Verdi civile ma evidente disaccordo politico tra il direttore d'orchestra e il regista

Nabucco fra Oren e Del Monaco

servizio di Rossana Poletti

Pubblicato il 24 Marzo 2024

20240324_Ts_00_Nabucco_GiancarloDelMonacoTRIESTE - Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”. L’avventura del Nabucco in scena in questi giorni al Teatro Verdi di Trieste comincia con una conferenza stampa, nella quale Daniel Oren, maestro concertatore e direttore, ha espresso che questo terzo titolo di Giuseppe Verdi, suo primo grande successo, è molto importante per il popolo ebraico, «... per tutto ciò che appartiene alla storia del popolo di Israele, che nella diaspora stava sempre nel posto non giusto e voleva tornare a Gerusalemme. Verdi l’ha capito bene con il “Va, pensiero” essendo un grande profeta.»
Dopo Daniel Oren è intervenuto il regista Giancarlo Del Monaco che ha affermato: «... questo è un nuovo Nabucco che ho pensato per Zagabria (l’allestimento è del Hrvatsko Narodno Kazalište di Zagabria). Non ci trovo nulla di ebraico, è un’opera italiana, risorgimentale mai come altre. Rappresenta il riscatto italiano sulle potenze straniere e Verdi ne è il simbolo. Come rendere il risorgimento? Con un Viva Verdi sull’architettura milanese e Nabucco che è Francesco Giuseppe, il quale schiacciò i moti di libertà delle giornate di Milano.»
Che questi due artisti non andassero d’accordo? Alla fine dell’opera Del Monaco non è uscito sul palco a prendere gli applausi del pubblico.
La scena si apre con un grande VIVA VERDI dipinto sulla parete di un edificio in pietra, la gente arriva e si ferma ad osservare il pittore che su una scala tratteggia la scritta. I coristi continuano ad entrare, sono una moltitudine, finchè non compaiono le bandiere bianco-rosso-verdi: non siamo in Babilonia e neanche nella Gerusalemme sconfitta di Nabucodonosor, siamo a Milano, è l’Italia risorgimentale che con Verdi (acronimo irredentista di Vittorio Emanuele Re D’Italia) reclama la sua indipendenza.

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I costumi sono quelli di metà Ottocento, tutto parla di noi italiani, della nostra storia. Ma non è solo l’occhio a intravvedere questo momento storico, la musica di Verdi palesa l’epicità del momento, quasi un coro infinito, sempre potente, prepotente, roboante che trasfigura il zum-pa-pa del primo Verdi (come lo ha definito il direttore), alla ricerca di una sua via, in una musica che conduce al “Va’ pensiero”, eseguito dal Coro del Teatro Verdi di Trieste, diretto da Paolo Longo, con grande padronanza e molto applaudito dal pubblico, incitato da Oren fino ad ottenerne il bis.
È ovvio, siamo a Trieste, patria dell’irredentismo più ardente, città che al lavoro di Giuseppe Verdi fu legata in particolar modo, eseguita nel Teatro che a lui fu successivamente intitolato, sotto il governo asburgico che durò fino alla fine della Grande Guerra e che mal tollerava gli impeti del compositore di Busseto.
Nella cronologia dell’opera all’inizio siamo nel tempio degli ebrei di Gerusalemme: il popolo ebraico, sconfitto dai babilonesi, in quel luogo attende l'evolversi degli eventi e la propria sorte.
Con fragore un cannone butta giù le grandi pietre del muro con la scritta e, ritto sulla bocca di fuoco, appare un Nabucodonosor in versione Franz Josef, come affettuosamente i triestini chiamano l’imperatore austriaco. Affettuosamente perché nella città è sempre convissuto lo spirito di italianità affianco ad un nostalgico ricordo dell’Austria-Ungheria, che regalò a Trieste due secoli di benessere economico, che nel Settecento trasformò il villaggio di pescatori in una città cosmopolita, in cui confluirono fior di intellettuali, artisti di ogni specie, la finanza internazionale, assieme ovviamente a truffatori di ogni risma. 
Torniamo all’opera in scena al Teatro Verdi, diretta da Daniel Oren, sempre in forma smagliante. Notazione di colore, non indossa la kippāh. Dal palchetto della direzione musicale guida l’orchestra del teatro, che il pubblico ha modo di applaudire più volte a scena aperta per l’entusiasmante esecuzione di tutta l’opera.

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Pezzo forte è la prestazione del personaggio di Nabucco da parte del baritono Roman Burdenko, perfetto nell’interpretazione nella scena del deliro di onnipotenza, della follia, e poi imprigionato, legato e avvolto in un cencio di tela di sacco. Ottima è la sua presenza vocale ed attoriale, con lui non serve leggere la didascalia, è tutto chiaro nella sua esecuzione. Il libretto di Temistocle Solera evoca l’avvento di quel Dio di Giuda che folgorerà Nabucco, dopo che la figlia Abigaille lo ha condotto prigioniero per rubargli il potere.
Maria Josè Siri è Abigaille, prepotente, eccezionale, raggiunge le vette impervie a cui il compositore di Busseto sottopone questo soprano; peccato che il troppo caldo nel teatro induca a malori e lei debba lasciare la scena anzitempo sostituita nel finale da Olga Maslova.
Tutto il cast non sfigura: dal Zaccaria di Rafal Siwek all’ Ismaele di Carlo Ventre e ancora Anna Goryachova (Fenena), Cristian Saitta (Gran sacerdote di Belo), Christian Collia (Abdallo) e Elisabetta Zizzo (Anna). Le scene e i costumi sono di William Orlandi e le luci di Wolfgang  von Zoubek.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 22 marzo 2024)

Crediti fotografici: Fabio Parenzan per il Teatro Verdi di Trieste
Nella miniatura in alto: il regista Giancarlo Del Monaco
Sotto, in sequenza: Roman Burdenko (Nabucco); Maria Josè Siri
(Abigaille); e tre belle panoramiche di Fabio Parenzan sull'allestimento triestino






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