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La Carmen di Georges Bizet con un finale inventato ha scatenato polemiche a non finire

E io dico che Leo Muscato...

intervento di Simone Tomei

Pubblicato il 31 Gennaio 2018

180131_Fi_00_Carmen_LeoMuscatoFIRENZE - Sono passati diversi giorni da quel 13 e 14 gennaio 2018 in cui ho assistito alle recita di Carmen di George Bizet al Teatro del Maggio Fiorentino; i giorni precedenti al mio arrivo nel capoluogo toscano sono stati cornice e culla di numerose polemiche in merito a questo allestimento che porta la firma del regista Leo Muscato, coadiuvato per la parte visiva dallo scenografo Andrea Belli, dalla costumista Margherita Baldoni e dalle luci di Alessandro Verazzi.
Giorni e giorni di polemiche e di sproloqui sui giornali e sui social che si sono susseguiti senza soluzione di continuità creando qua e là le più bizzarre manifestazioni; ci si barcamenava dall’ilarità più becera a quella maggiormente raffinata passando poi per la via dell’anatema senza farci mancare qualche  punta di maledizione vera a propria che è sfociata spesso nel cattivo gusto.
La motivazione è nota e ormai, dopo l’acqua passata sotto i ponti in questo periodo, forse anche gli spiriti più ribelli si sono assopiti, ma veniamo ai fatti: “qualcuno” ha avuto la brillante idea di modificare il finale dell’opera invertendo i ruoli di uccisore ed uccisa invocando una sorta di “lotta” o meglio “sensibilizzazione” sullo scottante tema del femminicidio; personalmente non mi trovo d’accordo con questa decisione e lo sottolineo non solo per evidenziare un parere personale che è doveroso che io esprima per dovere di cronaca, ma perché mi interessa mettere in luce alcuni aspetti consequenziali su cui ho fatto qualche riflessione personale.

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Il primo scaturisce dal fatto che, se non ho male interpretato alcuni segni, sembra che in questa idea del signor “qualcuno” anche il torero Escamillo abbia sorte avversa nel suo duello finale in quanto proprio sulle ultime note dell’opera appare sospeso in aria un fantoccio che simula il resto del suo vestito fatto a brandelli, quale segno di una evidente sconfitta nella corrida.

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Ho interpretato male? Non lo so, ma credo di no; questa ulteriore conclusione invertita, rispetto all’originale di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, librettisti della Carmen, porta a vanificare anche il tentativo di cercare un finale come si usa dire oggi “politically correct” perché se questa “donna di facili costumi” alla fine sopravvive, lo fa per un nuovo amore che poi rimane infilato dalle corna taurine nell’arena di Siviglia. E quindi? “Lei, cornuta e mazziata. Lui incornato” altro che la riscossa della donna… era forse più coerente darle un doveroso e completo lieto fine… se si fa un danno, si faccia almeno bene.
Questi però sono discorsi da leone della tastiera - che comunque hanno una firma - perché quello che più mi preme mettere in evidenza sono altri due aspetti che mi stanno particolarmente a cuore.
Chi mi legge, ricorderà come quest’estate ebbi modo di parlare in maniera non proprio esaltante di una Turandot che vidi a Macerata - per chi vuole può leggere qui l’articolo - ed in quel contesto misi in evidenza alcuni aspetti piuttosto deboli e vacui di una drammaturgia completamente travisata; al di là di tante assurdità e pacchianerie di dubbio gusto, vi era un episodio che, come nella Carmen fiorentina, invertiva completamente la realtà del libretto: Liù non si uccide, ma viene uccisa con un colpo di pistola proprio dalla principessa Turandot.

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Ebbene, a quel tempo non lessi sui social (e ovunque fosse possibile dare fiato agli istinti più beceri), un accanimento e una ferocia cosi accaniti come in questo caso, anzi, alcuni elogiarono quella produzione come un capolavoro di alta regia, invocando quasi segnali divini in merito alla bravura del duo registro Ricci-Forte: l’episodio maceratese per me, invece, fu in toto un vero insulto alla musica e al Teatro; questa fiorentina al contrario, al di là di quella arbitrarietà nella scelta finale, portava in sé uno spettacolo di ottima piacevolezza e di grande gusto, con peculiare attenzione al libretto; probabilmente è una questione di “figli e figliastri”, ma questo è un altro discorso...

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Ultimo aspetto che vorrei segnalare è proprio rivolto direttamente al signor “qualcuno”; ognuno è libero di esprimere come vuole le idee che una partitura, un libretto o la realtà della vita, possono suggerire, ma forse sarebbe anche necessario che queste idee non andassero totalmente a penalizzare coloro che sono tenuti a dargli vita tramite il proprio corpo e la propria voce; la sera del sabato in cui era in scena il cast alternativo non ho notato particolari sofferenze nel pubblico salvo qualche isolato dissenso, ma la domenica, giorno di trasferta per molti melomani da soli o in gruppo, proprio alla fine dell’ultima nota, si è levata nella platea con urlo quasi disumano, la parola “buffoni” seguita da una sequela di fischi e di urla. Ecco, signor “qualcuno”, forse in questi momenti sarebbe stato giusto che tali parole e tali gesti fossi andato tu a prenderli sul palco esponendoti al “pubblico ludibrio” anziché far sì che tanta acredine si fosse riversata su coloro che hanno eseguito le tue idee dando anima e corpo per tre ore sulle tavole di legno.

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Al di là del dispiacere personale che ho provato per i cantanti - peraltro molto bravi - di quella domenica, ho notato anche come il mondo dei frequentatori di Teatro appaia ancora in parte, molto ignorante e non solo per il fatto del fischio e del becerío, ma per non saper ancora distinguere tra la figura di un regista e quella di un Maestro di Coro, scambiando completamente la loro identità; all’uscita infatti del M° Lorenzo Fratini - in abito scuro - contornato dai suoi cantanti e dalle voci bianche l’urlo ed il dissenso sono aumentati credendo di avere davanti forse quel signor “qualcuno”; questa a mio avviso è astio pregiudiziale che non merita la musica e non merita un Teatro…
Leo Muscato vede questa Carmen appartenente ad una popolazione di origine Rom che vive in un accampamento ben delineato dalle scene in cui si mette in mostra proprio un campo di zingari separato dalla realtà della città; questo è un segnale che ottimamente lega il tempo di Bizet al nostro e nel quale si concretizzano queste diversità e queste divisioni volute in parte da noi, ma anche da coloro che appartengono a quella etnia; una scenografia che muta senza mai cambiare nella sostanza, ma che riesce a trovare i giusti colori, il giusto sapore e le giuste proporzioni per farci viaggiare nella straordinaria partitura; sembra che sia tutto immobile, ma i giusti tocchi di luce e la disposizione variata delle roulottes rendono ogni volta l’impressione di trovarci nei vari mondi di Carmen. Ebbene, dopo avere espresso senza imbarazzi il mio pensiero, ora mi dedico all’aspetto musicale, del quale parlerò in due capitoli separati.

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Recita di sabato 13 gennaio - secondo cast:il tenore Sergio Escobar è stato interprete di Don José; il suo canto si è rivelato elegante evidenziando al contempo qualche affanno in acuto dove il suono perdeva smalto e lucentezza; meglio la zona centrale dotata di ampiezza e grande legato in cui la morbidezza trovava un suo più naturale sfogo.
Nei panni di Escamillo il titubante Burak Bilgili ha messo in evidenza solo limiti vocali che gli sono valsi una prova del tutto insufficiente: voce poco timbrata, spesso fagocitante in acuto e prova di corpo nelle note gravi, non ha saputo trasmettere il carisma di un personaggio che sprigiona fascino ed eleganza in ogni frase e in ogni movenza.
Dario Shikmiri è stato un bravo Dancario, preciso musicalmente e vocalmente; mentre nel ruolo del compagno Remendado si è fatto valere per squillo sonoro e precisione musicale un ottimo Gregory Bonfatti.
Poco incisivo il Morales di Qianmind Dou a causa di un’emissione molto ingolata; invece si è ben distinto lo Zuniga di Adriano Gramingi grazie alla presenza scenica e un gradevole timbro.
La Carmen di Marina Comparato ha saputo trattare con eleganza e maturità un personaggio complesso e conturbante; si è notata con grande stile l’evoluzione del personaggio attraverso la drammaturgia che libretto e musica impongono con una vocalità omogenea e con una grande attenzione a trovare l’accento necessario per ogni frase, senza mai cadere nel volgare o nello scurrile, ma trovando sempre la giusta misura per regalarci un personaggio di grande pregio e di grande sensualità.
Nel ruolo di Micaëla il soprano Valeria Sepe si è garantita una prova vocale precisa e puntuale dal punto di vista prettamente musicale, ma gli accenti e le intenzioni erano ben lontani dalla visione dolce e mite del personaggio; sono mancate le nouances di suono che amo sentire nelle sue struggenti pagine; hanno prevalso gli acuti piuttosto secchi e feroci e con note gravi piuttosto deboli; ritengo che la sua vocalità poco si adatti a questi ruoli che esigono un canto meno nerboruto e più incline a languide sfumature.
Brave e spigliate le due amiche Frasquita e Mercédès interpretate rispettivamente da Eleonora Bellocci e Giada Frasconi, che hanno saputo trovare un giusto piglio scenico e vocale mettendo in risalto un’emissione ben curata e precisa senza voler strafare, ma integrandosi bene con il contesto e regalandoci, insieme alle altre, un preciso e frizzante quintetto.
A completare il cast: Une marchandise d’oranges Mirabela Castillo, Un Bohémien Antonio Menicucci e Lillas Pastia Rufin Dho Zeyenouin.
Ottima la prova del Coro adulti e di quello delle Voci bianche diretto e preparato dal M° Lorenzo Fratini; lui ha saputo tradurre i tanti colori vocali in altrettante immagini di acquerelli che hanno armoniosamente illuminato e colorato il palcoscenico del Teatro fiorentino.
La direzione di Ryan McAdams è stata fluente e lineare, abbastanza vivace di colori e alla ricerca di buone intenzioni per rendere il tutto fluido e malleabile; i tempi scelti talvolta hanno trovato nella fretta la loro più criticabile collocazione e questo ha tolto in alcuni momenti qualche sicurezza nelle voci e soprattutto negli intrecci con le grandi masse che per imponenza vocale e per fascino musicale hanno saputo tradurre in emozioni intere pagine maestose come il gran finale del secondo atto.

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Recita di domenica 14 gennaio - primo cast: il tenore Roberto Aronica è stato il valido e degno interprete del soldato amante Don José; l’aggettivo "generoso" è quello che maggiormente incarna la sua interpretazione; generoso vocalmente, generoso sulla scena e questa generosità si è trasformata in un personaggio completo che mai ha tradito la sua identità drammaturgica; la voce trova nell’emissione un grande legato e fascino che si traduce in un servizio attento alla parola e di conseguenza anche al gesto scenico andato a formare un triangolo di solida bravura.
Elegante e signorile anche la prova di Simone Alberghini nel ruolo di Escamillo, che ha sostituito il titolare già in scena la sera prima, con ottimo risultato grazie ad una vocalità salda, compatta e sempre omogenea, nonché spigliato e disinvolto nell’approccio scenico.
La Carmen domenicale è stata interpreta dal mezzosoprano Veronica Simeoni già ascoltata da me nel medesimo ruolo in terra salentina e che oggi si è confermata interprete appassionata e padrona del ruolo; la voce è andata di pari passo con la scena mettendo in evidenza con i disparati accenti le varie sfaccettature di un personaggio che mai è incline a piegare la testa; la grinta vocale si è tradotta in un canto che oscillava tra il sensuale ed il diabolico, ma come l’interprete della sera precedente, mai sgarbata o sopra le righe.
Un cambio di interprete anche per il ruolo di Micaëla che ha trovato voce ed emozione per mezzo del soprano Laura Giordano; il suo canto è stato elegante, misurato, ma non anonimo ed ha saputo tradurre le grandi emozioni ed intenzioni che scaturiscono da parole e musica che le sono attribuite; se il duetto del primo atto ha scaldato i motori sicuramente la preghiera del terzo ci ha fatto volare sui lidi della poesia pura e del canto a fior di labbra, ma con quella giusta profondità che solo la prece di una semplice ragazza può elevare l’animo all’infinito.
Completavano il cast: Une marchandise d’oranges Ramona Peter, ed Un Bohémien Gabriele Spina.
Si conclude questo mio reportage di un fine settimana fiorentino in compagnia di una musica immortale che ad ogni pagina riesce sempre a regalarmi grandi emozioni… e se “Carmen non muore” come recita una frase del comunicato stampa della Fondazione fiorentina, l’emozione della musica mi ha fatto sicuramente superare questa visione che non condivido, ma che non era l’essenza dello spettacolo, bensì solo un insolito, seppur importante particolare.

Crediti fotografici: Michele Borzoni e Pietro Paolini per il Maggio Musicale Fiorentino - Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il regista Leo Muscato






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