Pubblicato il 14 Agosto 2023
Al Macerata Opera Festival in scena gli allestimenti dei due capolavori di Donizetti e Verdi
Lucia e Traviata belle e antitetiche servizio di Simone Tomei

20230814_Mc_00_LuciaDiLammermoor-LaTraviataMACERATA - Tornare allo Sferisterio per il Macerata Opera Festival  dopo alcuni anni di assenza è stato un vero piacere. Ho potuto assistere a due delle tre produzioni della stagione estiva 2023 del M.O.F. Entrambe estremamente accattivanti anche se realizzate dai rispettivi registi in due modi completamente antitetici nel concepire il dramma in musica. Ecco cronaca e critica per entrambi gli spettacoli.

20230814_Mc_01_LuciaDiLammermoor_RuthIniesta_phMarilenaImbresciaLucia di Lammermoor (recita del 12 agosto 2023)
Un debutto atteso quello di Lucia di Lammermoor; il capolavoro donizettiano, assente da due decenni allo Sferisterio, trascina il pubblico maceratese nelle atmosfere gotiche ricostruite attraverso affascinanti effetti video creati con la tecnica del videomapping che sfrutta ottimamente il grande spazio scenico del teatro.
Lo spettacolo, in coproduzione con le Chorégies d’Orange, cittadina francese famosa per il maestoso teatro romano sede di un importantissimo festival internazionale, porta la firma registica di Jean-Lous Grinda – direttore artistico del festival francese – che si avvale di ottimi collaboratori. Le proiezioni sono ideate da Etienne Guiol e realizzate da Malo Lacroix; quasi tutti gli elementi della vicenda vengono così rappresentati in maniera virtuale, ma estremamente realistica.
Il mare, citato nella genesi del dramma lascia il posto alla sala degli Asthon per poi “proiettarci” nel dramma finale con la torre diroccata alla cui base si trova il cimitero della famiglia di Edgardo di Ravenswood. Nella maestosa visione virtuale si inseriscono pochi oggetti scenici nel secondo atto ideati da Rudy Sabounghi; completano la mise en scène i magnifici costumi di Jorge Jara ed un intelligente impianto luci curato da Laurent Castaingt.

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Interessante come il regista vede la figura della protagonista: «... in questo universo alla Scott, pienamente romantico, le ho voluto dare un carattere un po' mascolino. Il modello è George Sand, appunto una grande eroina della generazione romantica: una donna libera, coraggiosa, emancipata, che indossa i pantaloni per cavalcare e che ha il coraggio di andare a un appuntamento segreto con l'uomo che ama. Per carità, non immaginatevi una Lucia "maschile", non c'è alcun accenno a una sua eventuale omosessualità, che sarebbe del tutto assurdo. Ma, esattamente come per Sand, per Lucia mettersi abiti maschili, indossare i pantaloni è una rivendicazione di libertà. Quella libertà che il fratello Enrico le toglie obbligandola per ragioni politiche a sposare un uomo che lei non ama. Ovviamente, alle sue nozze Lucia comparirà vestita da donna, anzi con un abito da sposa che in questo caso diventa davvero la "divisa" della donna sottomessa ai voleri maschili della società borghese dell'Ottocento. In questo caso, il costume racconta l'evoluzione, o meglio l'involuzione, della storia di Lucia, la sua sottomissione alla volontà dell'uomo
Altro elemento interessante della visione registica di Grinda è il rapporto tra Lucia ed Enrico che viene così spiegato: «... è riduttivo fare di Enrico un puro modello di violenza maschile. Per me, Enrico e Lucia sono fratelli gemelli, molto simili anche nel carattere forte. Si intenderebbero in realtà benissimo, ma è sul denaro, sulla politica, sulla posizione sociale che scatta la violenza di lui su di lei. Non ci sono un fratello maggiore e una sorella minore. È quando viene messo in gioco lo status sociale della famiglia, dunque di entrambi, che Enrico forza Lucia con i risultati che sappiamo. E infatti nel finale manifesta un rimorso certo tardivo ma sincero.»

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Il cast vocale ha visto nel ruolo di Lucia una mirabile Ruth Iniesta la cui voce duttile si ammanta di densità conferendo al personaggio un affascinante pathos. Il carattere delineato dal regista riesce ad emergere appieno e alla soave incoscienza del primo atto fanno da contraltare i determinati duetti del secondo, per poi planare nella grande scena finale con intenzioni vocali di spessore. Qui la voce diventa pura, il fraseggio perfettamente scolpito senza perdere in morbidezza e nitidezza in cui acuti e sovracuti trovano sempre il giusto equilibrio e un nitore invidiabile.
Dmitry Korchak, nei panni di Edgardo, mette in luce una vocalità molto sonora e omogenea in tutti i registri. Il suo difetto maggiore è stato quello di voler “strafare” per stupire e, soprattutto nella scena finale, ciò è andato a discapito di una prova maiuscola, con qualche incertezza di intonazione ed un solfeggio non proprio corretto.
Sembra scritta per la voce di Davide Luciano la parte di Enrico Ashton; ha saputo trasmettere le intenzioni dell'autore ottocentesco e del regista odierno in maniera ineccepibile; il suo canto, ben timbrato nella zona centrale e luminoso in quella acuta, si libra nell’aria quasi magicamente grazie ad una emissione sonora e squillante. Il baritono napoletano non teme azzardi nelle puntature e conclude l'aria di sortita - "Cruda funesta smania" - con una veemenza quasi sfacciata, tanto l’esecuzione risulta perfetta.
Non era nel pieno della sua forma il basso Mirco Palazzi nelle vesti di Raimondo; la sua voce è apparsa piuttosto stanca e poco sonora, con evidente fatica nel raggiungere le zone più impervie del rigo musicale e nel superare il muro orchestrale.
Ottima prestazione quella di Paolo Antognetti (Arturo) che con voce sonora e argentina domina con sicumera il sestetto del secondo atto. Inconsistente ai limiti dell'inesistenza il Normanno di Gianluca Sorrentino, ottima l'Alisa di Natalia Gavrilan che ha saputo mettere in campo, nel seppur breve ruolo, un timbro molto interessante e di buona fattura.
Maiuscola prova con grandi qualità vocali in tutte le sezioni, quella del Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini", ben preparato dal M° Martino Faggiani.
Il M° Jordi Bernacer alla guida della FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana fornisce una lettura interessante del dramma donizettiano; ha tentato - a mio avviso riuscendoci - la strada di una certa smarcatura rispetto ad esecuzioni piuttosto tradizionali, dando vita ad un approccio meno romantico e più incentrato sulla necessità di rendere con il suono orchestrale gli ambienti e le emozioni del dramma.
Egli stesso dice: «... in Lucia di Lammermoor avvertiamo un'idea molto precisa del suono orchestrale, un nuovo sapore, pieno di mistero e malinconia. La Scozia come simbolo romantico è qui rappresentata con un impiego diverso di alcuni strumenti a fiato, soprattutto i corni come sezione e anche in relazione ad altri strumenti come i fagotti o i clarinetti. I corni, prima considerati il simbolo della musica da caccia, fanno ora da protagonisti in un mondo nuovo, nebbioso, cupo. Anche ľuso della glassarmonica nella scena della pazzia ha la capacità di trasportarci nel mondo irreale, nella desolazione segnata dall'alterazione mentale della protagonista. È vero che l'uso di questo strumento era di moda in quegli anni, tanto che lo stesso Donizetti ľ'aveva già utilizzato nel Castello di Kenilworth e un altro compositore nel balletto che aveva debuttato al Teatro di San Carlo di Napoli poco prima di Lucia di Lammermoor. Ma in "Ardon gl'incensi" il suono etereo, ondeggiante della glassarmonica sembra creato apposta per questa scena.»
Proprio in merito alla glassarmonica è doveroso fare un grandissimo plauso a Sasha Reckert che ha reso merito allo strumento conferendo a questo momento drammatico un'emozionante dimensione di irrealtà.
Sferisterio quasi esaurito in ogni ordine e gradimento unanime del pubblico per tutti i protagonosti, coro e orchestra compresi.

20230814_Mc_08_LaTraviata_NinoMachaidze_phMarilenaImbresciaLa traviata (recita del 13 agosto 2023)
Il mio soggiorno maceratese prosegue assaporando le bellezze artistiche della città marchigiana e godendo di quanto la cultura culinaria può offrire ai suoi ospiti, in attesa dell'appuntamento con La traviata, in scena la sera di domenica 13 agosto nell’arena dello Sferisterio.
Il Festival ci offre quest’anno l'iconica produzione nata nel 1992 di questo capolavoro verdiano, nota ai più come La traviata degli specchi... uno spettacolo immortale che non sente il passare del tempo, anzi con esso trova nuovi motivi per rinnovarsi diventando sempre più godibile e affascinante.
Il regista Henning Brockhaus fa nell’impianto scenico di Josef Svoboda un lavoro sempre più accurato e completo. Rispetto alla visione andata in scena nel 2018 quest’anno troviamo i tappeti, rinfrescati nelle fantasie riportandoci ai sapori ed ai colori della belle époque. Ottime idee inoltre la sostituzione dei mimi con i ballerini che, sulle coreografie di Valentina Escobar, allietano la festa a casa di Flora Bervoix e, altrettanto impattante, l’incursione carnascialesca nella ormai camera di morte di Violetta, conferendo un tocco di colore alla cupezza del terzo atto. Scarni rimangono gli arredi scenografici, ma in essi possiamo notare un ottimo gusto ed un elegante legame con gli arazzi colorati. Uno spettacolo insomma che non conosce tramonto e, come il vino con il passare del tempo, diventa sempre migliore.

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A guidare l’Orchestra Filarmonica Marchigiana è quest'oggi il M° Domenico Longo che sa trovare la giusta empatia con il palcoscenico; la ricchezza di colori e un'agogica molto curata, fanno della sua lettura un ascolto da ricordare piacevolmente.
Sul versante canoro Nino Machaidze interpreta una Violetta pomposa e roboante grazie ad un timbro elegante, morbido, cesellato, tornito e ricco di dinamiche in tutti i registri. Scenicamente sa imprimere al personaggio le sfaccettature dei “tre soprano” che sono necessari in quest’opera, quello più frivolo, quello sentimentale e quello drammatico.
Antony Ciaramitaro è un Alfredo Germont che mette in evidenza una vocalità molto ampia, con un colore adamantino e bello che si attaglia perfettamente al ruolo dell’innamorato. Il suo è infatti un giovane fresco, focoso, appassionato e convincente scenicamente grazie ad una recitazione partecipata e schietta.
Il Giorgio Germont di Roberto de Candia imprime al personaggio una dignità autorevole senza dover mettere in campo autorità sfacciata; il canto è morbido a completo servizio della parola scenica e ogni frase è calibrata dal giusto peso vocale; mai rinunciatario, non perde l’occasione di mostrare un’emissione egregiamente legata e sempre ben proiettata.
Di gran fascino vocale e scenico è la Flora di Mariangela Marini.
Plauso per tutti gli altri membri del cast che sanno interagire e mescolarsi a dovere con le melodie verdiane: l’Annina di Silvia Giannetti, il Gastone di Carmine Riccio, il Barone Douphol di Alberto Petricca, il marchese DObigny di Stefano Marchisio, il dottor Grenvil di Gaetano Triscari, il Giuseppe di Alessandro Pucci, il Domestico di Flora Giovanni Paci ed infine il Commissionario Gianluca Ercoli.
Intensa e convincente prova quella del Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini" egregiamente ben preparato dal M° Martino Faggiani.

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Riporto a conclusione un pensiero che scrissi al tempo, e che oggi risuona, a mio avviso, ancor più attuale e adatto al mondo che viviamo: «… gli spettatori sono della parte collettiva un elemento significante ancor più in questo allestimento dove tale componente viene quasi identificata nel pubblico che assiste ed alla fine si vede riflesso nell'immenso specchio andandosi a fondere con l'intera drammaturgia fatta di morte, dolore, pregiudizio e tanta ipocrisia... Uno specchio che riflette la società odierna? Forse, ma uno specchio che ci vuole invitare a riflettere e a ripensare a tanti nostri comportamenti talvolta poco inclini all'accoglienza, alla solidarietà e all'accettazione delle altrui diversità; anche quella sera quindi ho trovato un messaggio "umano" direi quasi ad hoc per il tempo in cui viviamo, in questa "Traviata degli specchi"... eppure ha quasi trent’anni ed ancora parla e ci vuol dire qualcosa; attuale? No! Attualissima
Sala sold-out pe La traviata degli specchi ed ovazioni per tutti.

Crediti fotografici: Marilena Imbrescia per il Macerata Opera Festival
Nella miniatura in alto: il logo del M.O.F.
Nella miniatura sotto: il soprano Ruth Iniesta protagista in Lucia di Lammermoor
Sotto in sequenza: Ruth Iniesta con Dmitry Korchak (Edgardo); ancora la Iniesta nella scena della pazzia; il baritono Davide Luciano (Enrico Ashton); panoramica su scene e costumi
Al centro: altre panoramiche negli scatti di Marilena Imbrescia
Nella miniatura al centro: il soprano Nino Machaidze in Traviata
Sotto in sequenza: Nino Machaidze con Antony Ciaramitaro (Alfredo); la Machaidze con Roberto de Candia (Giorgio Germont); ancora la Machaidze con Antony Ciaramitaro nella scena finale di La traviata
Al centro in sequenza: panoramiche su allestimento e costumi
In fondo: saluti finali dei protagonisti nel tripudio degli applausi





Pubblicato il 21 Agosto 2022
Diamo conto delle produzioni operistiche del Rossini Opera Festival di quest'anno
Comico e tragico al ROF 2022 servizio di Valentina Anzani

20220821_Ps_00_LeComteOry_JuanDiegoFlorezPESARO, 9-11 agosto 2022  - Conquista il nuovo allestimento di "Otello", meno convincente è stato "Le Comte Ory", mentre "La Gazzetta" fa da grazioso intermezzo. Ecco come sono andate le tre reciite cui abbiamo assistito.

Le Comte Ory ovvero una follia disorganizzata
Le opere in scena al Rossini Opera Festival, tradizionalmente tre, sono state per l’edizione 2022 Le Comte Ory, La Gazzetta, e Otello, tutte e tre con cast e maestranze dai nomi di pregio, che hanno sortito però esiti di vari livelli con un bilancio nettamente spostato sul terzo titolo.
A inaugurare Festival è stato Le Comte Ory, con Juan Diego Flórez (nel ruolo del titolo) e Julie Fuchs (La Comtesse) quali punte di diamante di un cast di altissimo livello che annoverava Monica Bacelli (Ragonde), Maria Kataeva (Isolier), Andrzej Filonczyk (Raimbaud) e Nahuel di Pierro (Le Gouverneur) tra i comprimari.
Con un gruppo di lavoro di tal calibro, per la nuova produzione firmata da Hugo De Ana e diretta da Diego Matheuz in testa all’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, le premesse apparivano ottime, tuttavia lo spettacolo non è riuscito come sperato.

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Da uno stimato regista come De Ana, che ha creato per decenni mirabili regie per teatri tra i più importanti al mondo, ci si sarebbe aspettati una lettura che perlomeno mettesse in luce gli aspetti preziosi e i sottotesti metaforici di un’opera complessa come questa; la sua decisione di puntare invece esclusivamente su quelli comici è risultata purtroppo in una drammaturgia tanto complessa da risultare a tratti incomprensibile.
La sua è una regia estetica, che crea un certo contesto per i personaggi, ma non una vera narrazione.
Personaggi e comparse ricalcano i figurini che brulicano nei mondi sognati da Hieronymous Bosch, trasformati da De Ana in macchiette che si producono in piccoli momenti comici, che strappano scoppi di facile ilarità generale, ma piccoli e difficili da intelleggere oltre la terza fila di platea.
Gioca certo sul parallelismo da un lato della follia (dis)organizzata della cifra pittorica di Bosch e dall’altro della trama del tessuto musicale della partitura rossinana, che è sì un turbinare di agnizioni, travestimenti, scambi di sesso, continui nascondini, ma che viene ridotto dall’allestimento ad un nonsense condito da un’ironia circense, da avanspettacolo: proprio come nei dipinti di Bosch, la regia è una parata carnevalesca, in cui però a differenza di questi, manca coerenza.
Sul palcoscenico si susseguono dunque un gran numero di masse, cori e comparse variamente vestiti e variamente gestiti, che si producono in numeri che rasentano il varietà televisivo. Vero è anche però che certe trovate (come il travestimento da Mosé di Flórez, che espone le tavole della legge che si accendono a intermittenza) scatenano risate di gusto nel pubblico, che in generale appare molto divertito dallo spettacolo, così come ha apprezzato il versante musicale.
Piace il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, e la sua aria nel second’atto è acclamata a furor di popolo.
Flórez non ha perso il suo smalto e si conferma un interprete fine e dai grandi meriti vocali e attoriali.
Julie Fuchs è generosa di potenza di voce così come di agilità.  Inoltre i due, insieme a Maria Kateva nei panni del paggio Isolier, ben convincono durante il famigerato terzetto finale, così come la Ragonde di Monica Bacelli, caratterizzata con efficacia sul palcoscenico come una signora agé.
Termina in grandi applausi quest’opera di cui ricorderemo le belle voci e un confuso turbinare colorato delle masse.

 

20220821_Ps_05_LaGazzetta_AndreaNinoLa Gazzetta dei toni pastello
È caratterizzata da toni pastello e ambientazione diafana la seconda opera in programma, ovvero La Gazzetta. La regia di Marco Carniti con scene di Manuela Gasperoni e costumi di Maria Filippi è una ripresa del 2015, ma ben resiste al passare del tempo e fa da degna cornice alle peripezie a finale lieto delle due coppie di innamorati Lisetta/Filippo e Doralice/Anselmo, condite dalla comicità pervasiva di Carlo Lepore nei panni di Don Pomponio.
Giorgio Caoduro affronta con la giusta leggerezza il ruolo di Filippo, mentre il tenore Alejandro Baliñas (Anselmo) affronta la sua aria – quasi di tempesta, trapiantata dall’opera seria – con agilità nel porgere e sicurezza espressiva.
Maria Grazia Schiavo ha un timbro un po’ meno ricco di come lo ricordavamo, ma ben interpreta la bizzosa Lisetta.

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Precisa è stata poi la Doralice di Martiniana Antoine, e ha conquistato la locandiera Madama La Rose di Andrea Niño per qualità dell’emissione tonda, tornita e ricca di armonici, così come per le ben sgranate agilità usate con disciplina e gusto.
Bene anche Pietro Adaini (Alberto) e Pablo Gálvez (Monsù Traversen).
Mercuriale è Ernesto Lama quale Tommasino, personaggio muto e comico, che fa apparire sul palcoscenico anche la tradizionale pesarese pizza “Rossini” (con uovo e maionese).

 

20220821_Ps_07_Otello_EneaScalaOtello, dramma universale
Vince su tutti la bellissima nuova produzione di Otello diretta da Yves Abel.
A Rosetta Cucchi è affidata la regia di uno spettacolo riuscito splendidamente: una drammaturgia preziosa, che si dipana sia nelle macrostrutture delle scene e dei movimenti delle masse, sia nei minimi gesti interlocutori tra i personaggi (come l’esitare all’avvicinarsi dei due sposi segreti Otello e Desdemona durate la festa del primo atto).
Rosetta Cucchi ben racconta come alla violenza domestica, al femminicidio, si arrivi in modo graduale, come la vittima venga avvolta nelle spire degli atti violenti che, di piccola violenza in piccola violenza, le si stringono addosso come una morsa sempre più pericolosa e sempre più disumanizzante, e mette in evidenza anche l’importanza imprescindibile di una rete di supporto per la vittima, che in questo caso la famiglia d’origine nega a Desdemona, rendendole impossibile allontanarsi dal suo amato e carnefice Otello.
L’allestimento a tratti passa dall’iperrealismo al metafisico e la vicenda di Desdemona diventa metafora di quella vissuta da ogni vittima.
Ben emerge anche la sua solitudine di donna inerme in mezzo a uomini abusivi, e ammette che “confusa, oppressa, in me non so più ritrovar me stessa”:  proprio come le vittime di violenza domestica a poco a poco perdono parte della propria identità.

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Molto efficace anche il doppio ambiente (con le scene di Tiziano Santi) in cui avviene l’azione, quello pubblico, della sala da feste, in cui tutto è apparenza sociale e abiti scintillanti (nei costumi di Ursula Patzak), e quello privato, nelle stanze di servizio della casa, dove si rivelano le vere nature dei personaggi.
Qui si dipana una drammaturgia veloce, che nulla ha da invidiare alla suspence narrativa degli sceneggiati Netflix (pieno di tensione è il duello a colpi di roulette russa tra Otello e Rodrigo), con evocazioni hopperiane d’impatto, certe controscene ricche e tanto potenti da distrarre dall’azione principale (come nel caso dello schiaffo del padre Elmiro a Desdemona, vero centro dell’azione, ma disturbato dalla baruffa di Otello con Rodrigo).
Diversi sono stati i momenti musicali d’effetto: meraviglioso il concertato di fine primo atto, così come l’aria a inizio secondo atto di Rodrigo (un bravissimo Dmitry Korchak, a cui viene richiesto un bis), e la Canzone del salice, momento liricissimo (e forse il più noto brano dell’opera).

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Piacciono molto i cantanti: la Desdemona di Eleonora Buratto è incredibile nel porgere, nell’ornare; l’Otello di Enea Scala è elegante nel gesto e nell’emissione; appropriato e intenso è l’Elmiro di Evgeny Stavinsky, così come lo Iago di Antonino Siragusa, di cui colpisce la cura fin nei minimi particolari dei recitativi. Bene anche Adriana di Paola (Emilia).
Il risultato è uno spettacolo articolato, complesso, profondo, con tanto di finale alternativo.
Rosetta Cucchi chiude infatti l’opera con una doppia scena: Otello e Desdemona tragicamente accasciati in primo piano, e gli stessi al contrario felici e attorniati dalla famiglia in secondo piano.
Quel finale alternativo positivo mostra come, se in quella famiglia ci fosse stato ascolto e rispetto, se non avessero giudicato e sminuito Otello, se Iago non fosse stato invidioso, se, se, se… tutto sarebbe potuto invece finire bene.
E strazia ancor più di quello tragico reale.

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Crediti fotografici: Amati Bacciardi per il Rossini Opera Festival di Pesaro
Nella prima miniatura in alto: il tenore Juan Diego Flórez protagonista di Le Comte Ory
Sotto in sequenza: Ancora Flórez con le "Tavole della Legge" trovata registica molto applaudita; Nahuel Di Pierro (Le Gouverneur); Flórez con Julie Fuchs (La Comtesse) e Maria Kataeva (Isolier); a seguire, bella panoramica di Amati Bacciardi su
Le Comte Ory
Nella seconda miniatura al centro: la brava Andrea Niño nelle vesti di Madama La Rose nell'opera La Gazzetta
Sotto da sinistra il cast di La Gazzetta: Martiniana Antonie (Doralice); Pietro Adaini (Alberto); Carlo Lepore (Don Pomponio); Giorgio Caoduro (Filippo); Maria Grazia Schiavo (Lisetta)
Nella terza miniatura in fondo: Enea Scala ottimo protagonista di Otello
Sotto in sequenza: Antonino Siragusa (Iago) e Adriana Di Paola (Emilia); la splendida Eleonora Buratto (Desdemona); Evgeny Stavinsky (Elmiro); ancora Enea Scala con Dmitry Korchak (Rodrigo); Dmtry Korchak con Antonino Siragusa; Dmitry Korchak,  Eleonora Buratto, Enea Scala
In fondo, in sequenza: scena d'assieme con Evgeny Stavinsky , Eleonora Buratto, Dmitry Korchak, Enea Scala e il coro
A seguire: altra scena d'assieme con Eleonora Buratto, Dmitry Korchak e Evgeny Stavinsky





Pubblicato il 31 Luglio 2022
Di respiro ambizioso ma dagli esiti altalenanti il 48° Festival della Valle d'Itria primo dell'era Schwarz
Tappe dell'opera: l'Ottocento e il Novecento servizio di Giuliano Danieli

MARTINA FRANCA (TA) - Facciamo seguito alle precedenti recensioni già publicate su questa testata giornalistica on-line (per leggere il servizio premere qui), pubblicando la seconda parte delle nostre cronache musicali dal Festival della Valle d'Itria di Martina Franca.

20220731_ValleDItria_00_MicheleSpotti_phMarcoBorrelliVincenzo Bellini
BEATRICE DI TENDA (recensione della recita del 23 luglio 2022) A rappresentare il belcanto nell’edizione del Festival della Valle d’Itria 2022 è la rara Beatrice di Tenda, penultima opera di Bellini, composta nel 1833 su libretto di Felice Romani. Qui Bellini tenta strade diverse rispetto al passato: si dedica per la prima volta a un dramma storico, in cui la componente politica ricopre un ruolo non inferiore a quella sentimentale, dà spazio a moltissimi pezzi d’assieme, e sviluppa un linguaggio in cui il ritmo acquista un inedito rilievo a fianco alle melodie “lunghe, lunghe, lunghe” tipiche delle sue opere precedenti. Ragioni più che valide per riavvicinarsi a un titolo mai davvero entrato in repertorio, nonostante i tentativi di rilanciarne la fortuna non siano mancati sin dagli anni ’60 del Novecento.
Il Festival della Valle d’Itria 2022 ha invitato ad una riscoperta che si concentrasse eminentemente sul valore musicale, dato che Beatrice di Tenda è stata presentata in forma di concerto. Eppure, grazie all’ottima qualità degli interpreti, non è stato difficile figurarsi con nettezza le situazioni, i profili dei personaggi e le cupe atmosfere evocate dall’opera.

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Il direttore ventinovenne Michele Spotti ha sostituito Fabio Luisi – positivo al covid – a pochi giorni dal debutto dello spettacolo. Nonostante lo scarso preavviso, la sua prova alla guida dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari è di primissimo livello. Spotti imprime al suono una profondità e una varietà di tinte fuori dal comune, e porta orchestra e voci a integrarsi in totale equilibrio – fatto ancor più encomiabile se si considera che l’opera, come da tradizione del Festival, è eseguita nell’Atrio del Palazzo Ducale di Martina Franca, spazio dall’acustica non semplice, anomala rispetto a quella di un teatro al chiuso.  
In perfetta armonia con la sensibilità del giovane direttore è il soprano Giuliana Gianfaldoni, che ritrae con accenti rarefatti una Beatrice di Tenda emblema di purezza. Sin dal suo ingresso (“Respiro io qui…”), Gianfaldoni regala dei memorabili chiaroscuri: la sua voce pare inizialmente provenire da lontananze siderali, per poi lentamente crescere in volume e calore. L’interpretazione del soprano si mantiene su livelli altissimi tanto nei recitativi quanto nei numeri musicali di più ardito virtuosismo. E non è un caso che il pubblico, al termine dell’esecuzione, regali proprio a Gianfaldoni, e a Spotti, gli applausi più calorosi.
Molto bene anche Biagio Pizzuti come Filippo Maria Visconti, che sfoggia perentoria durezza, ma sa anche occasionalmente ammorbidire il fraseggio, soprattutto nel secondo atto dell’opera.
Theresa Kronthaler è apprezzabile come Agnese del Maino, anche se il personaggio potrebbe essere scolpito con maggiore carisma. Celso Albelo (Orombello) mostra sin dall’iniziale duetto con Agnese un certo affaticamento, con una gestione non ottimale delle dinamiche e diverse incertezze di intonazione.

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Completa il cast Joan Folqué, nel doppio ruolo di Anichino e Rizzardo del Maino.
Canta con sicurezza e sincera partecipazione il coro diretto da Fabrizio Cassi.

 

20220731_ValleDItria_06_JanLathamKoenigSergej Prokof’ev
LE JOUEUR
(recensione della recita del 24 luglio 2022)
Bellini e Prokof’ev sono due universi incomparabili. Se l’Atrio del Palazzo Ducale risulta consono all’esecuzione di un titolo come la Beatrice di Tenda, non altrettanto può dirsi nel caso de Le Joueur: la densità di scrittura, il peso dell’orchestra, la veemenza ritmica di quest’opera vengono penalizzati dall’acustica della principale arena della rassegna martinese. Nonostante Jan Latham-Koenig diriga con massima perizia l’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, nello spazio del Ducale il suono è piuttosto sbilanciato: i bassi tendono a soffocare gli altri strumenti, a detrimento di una chiara percezione delle affascinanti stratificazioni della partitura.
Al di là di questo limite, di cui si spera si terrà conto nelle prossime rassegne (il Novecento, che è opportuno continuare a esplorare a Martina Franca, non difetta certamente di opere dall’ordito più leggero e consone agli spazi disponibili), Le Joueur si è comunque rivelato come uno degli esiti più soddisfacenti del Festival.

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Il regista David Pountney ha dato dell’opera una lettura molto dinamica, curando meticolosamente la recitazione di ciascun personaggio e i movimenti delle masse, in senso però non naturalistico, ma grottesco – in sintonia con la materia musicale e la vicenda alienante ispirata al Giocatore di Dostoevskij, ma anche con l’estetica delle avanguardie russe degli anni ’10 del Novecento, entro la quale si colloca quest’opera. Durante la breve introduzione orchestrale i protagonisti girano in tondo come biglie impazzite di una roulette; essi si muovono meccanicamente fra le pareti disegnate da Leila Fteita (anche costumista), che rimandano ad un tavolo da gioco e contribuiscono a trasformare i caratteri de Le Joueur in figure non umane. Lo spettacolo raggiunge il suo culmine nella seconda parte, in particolare nella parossistica scena del gioco dell’atto quarto.
Ad esaltare le idee di Pountney contribuisce il magistrale lavoro di Alessandro Carletti, lighting designer che ci ha abituati anche in altre produzioni ad un uso visionario delle luci, in grado di scandire espressionisticamente gli snodi interiori ed esteriori del dramma.

20220731_ValleDItria_08_LeJoueur_phClarissaLapolla

Nel nutrito cast vocale spiccano la Pauline di Maritina Tampakopoulos, l’Alexis di Sergej Radchenko e la Grand-Mère di Silvia Beltrami. La sola perplessità che ci permettiamo di avanzare riguarda la dizione francese di gran parte dei cantanti, per nulla soddisfacente.
Poiché il Festival ha insistito sul recupero della versione francese dell’opera, quella della prima assoluta al Théatre Royale de la Monnaie nel 1929, sarebbe stato lecito aspettarsi una più appropriata preparazione sul fronte linguistico da parte dell’intero cast. La scarsa comprensibilità del testo non ha comunque compromesso l’esito positivo della performance, che il pubblico ha giustamente molto applaudito.

Opera e cinema
SILENT CARMEN (recensione dello spettacolo del 21 luglio 2022)
Il Festival ha dedicato due serate all’opera in film (Gianni Schicchi diretto da Damiano Michieletto il 20 luglio; un dittico di film muti ispirati a Carmen il 21), e crediamo che questa sia stata una delle intuizioni più felici della nuova gestione. Si tratta di una scelta tutt’altro che banale: l’opera da sempre intrattiene rapporti strettissimi con la settima arte, che ha enormemente contribuito alla sua diffusione e rimodulazione negli ultimi cento anni.
In una rassegna volta a ripercorrere i 450 anni di storia dell’opera, le trasformazioni mediali di questo genere artistico costituiscono un aspetto che sarebbe stato ingiusto ignorare.
Chi scrive ha assistito alla serata intitolata Silent Carmen, dittico di film muti ispirati alla celebre opera di Bizet. Alla Carmen di Cecil B. De Mille (USA, 1915) è stata affiancata la parodia diretta da Charlie Chaplin (A Burlesque on Carmen – USA, 1915), quest’ultima nell’edizione ottimamente restaurata dalla Cineteca di Bologna. Ad accompagnare le due pellicole è stata l’Orchestra della Magna Grecia, guidata da uno dei massimi esperti di musica per film muti: Timothy Brock. Ne è risultata una serata intellettualmente stimolante e musicalmente piacevolissima. 
Dei due film in programma, colpisce particolarmente quello di Chaplin, che non solo parodizza con intelligente ironia il lavoro di De Mille – e così facendo decostruisce alcuni assunti dell’opera di Bizet –, ma regala anche momenti di commovente dolcezza, come il finale in cui l’ufficiale Darn Hosiery (il Don José interpretato da Chaplin) e Carmen (Theda Bara) svelano sorridenti che l’epilogo tragico del film-opera (l’uccisione della gitana), altro non è stato che un momento di giocosa finzione.
La pellicola è accompagnata da una partitura composta da Brock, che rivisita in chiave swing, e in tono perfettamente coerente con la poetica di Chaplin, le più celebri melodie di Carmen. Il risultato sorprende anche per l’abile sincronizzazione fra i gesti musicali e le immagini: un dialogo fecondo, che permette di ascoltare e vedere l’opera di Bizet sotto nuova luce.

Crediti fotografici: Marco Borrelli (miniatura); Clarissa Lapolla per il Festival della Valle d'Itria di Martina Franca (Ta)
Nella miniatura in alto: il direttore Michele Spotti
Sotto: il cast di Beatrice di Tenda fotografato da Clarissa Lapolla
Al centro in sequenza: Giuliana Gianfaldoni; Theresa Kronthaler; Biagio Pizzuti
Sotto: ancora il direttore Michele Spotti
Nella miniatura al centro: il direttore Jan Latham-Koenig
In fondo: panoramiche su Le Joueur






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Strauss, nel 1905, non si limitò a superare le sue precedenti prove operistiche: con Salome spalancò un abisso sonoro e psicologico che avrebbe segnato indelebilmente la musica del XX secolo. La celebre osservazione sulla sua capacità quasi unica di fondere l’azzardo avanguardistico con la garanzia del successo popolare coglie nel segno, ma forse non basta a spiegare il sortilegio di quest’opera: Salome è il frutto dell’abilità quasi diabolica di un compositore-stratega nel maneggiare le tensioni più profonde del suo tempo.
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