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Il Festival Donizetti di Bergamo e un cast di ottimo livello dentro il trionfo del capolavoro romantico |
Un eccellente Roberto Devereux |
servizio di Simone Tomei |
Pubblicato il 24 Novembre 2024 |
BERGAMO - La versione napoletana del Roberto Devereux inaugura la decima edizione del Donizetti Opera Festival 2024. Il capolavoro di Gaetano Donizetti fin dalla sua prima rappresentazione al Teatro di San Carlo di Napoli nel 1837 ha riscosso grande successo. Ghiotta occasione per il festival bergamasco che la presenta nell’edizione critica curata da Julia Lockhart e pubblicata nel 2022. Si tratta di una scelta significativa, poiché solitamente viene eseguita la versione rivista da Donizetti per il pubblico parigino negli anni successivi. Le differenze più significative tra le due edizioni, sebbene non numerose, includono modifiche alla cabaletta del duetto tra Roberto ed Elisabetta e l'assenza della sinfonia. La trama dell’opera intreccia realtà storica e finzione drammatica, mettendo in scena un complesso quadrilatero amoroso che ruota attorno alla figura di Elisabetta I Tudor. Nonostante il titolo evochi il conte di Essex, il vero fulcro della vicenda è la sovrana inglese, ormai avanti negli anni e innamorata perdutamente di Roberto Devereux. Il sentimento, tuttavia, non è ricambiato: il cuore del conte appartiene segretamente a Sara, moglie del duca di Nottingham, amico fidato di Roberto e leale servitore della regina. Gli eventi precipitano quando Elisabetta e Nottingham scoprono il tradimento grazie a un dettaglio rivelatore: una sciarpa azzurra ricamata da Sara, osservata di nascosto dal marito, e donata a Roberto come simbolo d’amore. In cambio, il conte Roberto le regala un anello che la regina gli aveva offerto, capace di garantirgli la salvezza qualora l’avesse restituito nelle sue mani in caso di pericolo. Il tradimento viene svelato quando la sciarpa viene trovata tra gli oggetti di Devereux.


Furiosa e ferita, Elisabetta firma la condanna a morte del conte. Nel disperato tentativo di salvarlo, Sara cerca di consegnare l’anello alla regina come supplica di grazia, ma viene bloccata dal duca di Nottingham. L’esecuzione ha così luogo, segnando il tragico epilogo di questa intricata vicenda di amore, gelosia e vendetta. Lo spettacolo in scena a Bergamo, diretto da Stephen Langridge, si distingue per un'estetica essenziale e d'impatto, che punta su simbolismi potenti e atmosfere cariche di tensione. La collaborazione con la scenografa e costumista Katie Davenport ha dato vita a un’ambientazione dominata da contrasti visivi e suggestioni elisabettiane, dove il coro, osservatore onnipresente, si erge sopra la scena come un implacabile tribunale. Gli stalli neri in stile rinascimentale incorniciano l’azione, mentre teschi e arredi in rosso segnano il destino incombente dei protagonisti. Un elemento centrale nella lettura registica è la figura di Elisabetta I Tudor, affiancata costantemente da un’inquietante proiezione della sua stessa mortalità: un pupazzo scheletrico, mosso con maestria da due mimi, che ne incarna il doppio spettrale (la regia animazione del pupazzo è stata curata da Poppy Franziska). Questo simbolo di decadenza e morte perseguita la sovrana, ricordandole la differenza d’età con l’amato Roberto e la fragilità del tempo che scorre. Sul palcoscenico, la presenza ossessiva di clessidre e teschi rafforza il leitmotiv della caducità. Il grande letto rosso, simbolo di passione e desiderio, diventa il contrappunto visivo allo spettro di una morte ormai imminente, dominando la scena in varie configurazioni. Sempre presente, fluttua nello spazio come un testimone silenzioso delle relazioni tra i personaggi, comparendo sia nei momenti che vedono protagonista Sara, sia in quelli che coinvolgono la regina. L’intimità e il desiderio irrompono anche attraverso le proiezioni dei versi delle lettere di Roberto, che risplendono sullo sfondo spoglio, interrompendo l’austerità con parole cariche di emozione. Un ruolo di rilievo nella narrazione è giocato dalla corte inglese, rappresentata dal coro, il quale assume il doppio volto di popolo e giudice. Disposto in alto, alle spalle dei protagonisti, il coro osserva e giudica, avvolto in un’atmosfera severa sottolineata dalle fredde luci di neon sospesi, curate da Peter Mumford. Questa presenza opprimente evoca l’idea di un’arena senza uscita, dove ogni personaggio è costretto a confrontarsi con il proprio destino sotto lo sguardo impassibile della collettività. Langridge riesce, con una messa in scena priva di eccessi, ad evocare efficacemente l’epoca di Elisabetta I, mantenendo un’impronta teatrale sostanzialmente classica. La cornice luminosa che separa il palcoscenico in aree pubbliche e private amplifica il senso di confine tra i diversi piani narrativi, ma la sua intensità visiva, pur efficace dal punto di vista simbolico, tende a distrarre e ad abbagliare il pubblico in alcuni momenti.


Il M° Riccardo Frizza, sul podio dell’Orchestra Donizetti Opera, dimostra la sua profonda affinità con il repertorio belcantistico, restituendo al pubblico una lettura tesa e vibrante del Roberto Devereux. Il direttore bresciano affronta la partitura con straordinaria cura, dando vita a un racconto musicale ricco di sfumature, capace di alternare con naturalezza momenti di drammaticità a passaggi lirici di delicata introspezione. Ogni scelta rispetta l’equilibrio tra orchestra e voci, con una sensibilità che valorizza i cantanti senza mai sovrastarli. Frizza non si limita a seguire la scrittura donizettiana: la esalta, scavando nelle pieghe dell’orchestrazione con una lettura attenta alle minime sfumature. La sua direzione restituisce un Roberto Devereux denso di tensione emotiva, sostenuto da una precisione ritmica che dà forma teatrale alla struttura dell’opera. I cambi di tempo, improvvisi e incalzanti, emergono con una chiarezza che contribuisce a costruire un clima espressivo vibrante, dove ogni contrasto dinamico sembra amplificare il tumulto interiore dei personaggi. Il suono dell’orchestra si fa talvolta scarno, tagliente, con ritmo serrato e nervoso che incornicia le passioni e i conflitti dei protagonisti, ma mai privo di calore. I colori orchestrali, sempre calibrati, delineano con nitidezza il carattere cupo di questo capolavoro, mentre la linea melodica si dispiega con struggente bellezza. Il direttore, dal podio, modella l’orchestra seguendo la voce e il respiro dei cantanti, costruendo un dialogo costante tra buca e palcoscenico che arricchisce l’intera esecuzione. Fondamentale anche l’apporto del coro dell’Accademia del Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò, che aggiunge ulteriore profondità all’insieme con una prestazione solida e incisiva. Debuttare nei panni di Elisabetta I è una sfida che Jessica Pratt ha accolto con coraggio e consapevolezza, conoscendo le insidie di un ruolo che storicamente si sposa con vocalità più drammatiche. Il soprano australiano – ben nota per la sua maestria nel belcanto in ruoli come Lucia, Amina, Gilda e Regina della Notte – ha saputo infondere nuova vita alla sovrana donizettiana, tracciando un ritratto vibrante di fierezza e fragilità. Il M° Frizza, sostenitore convinto della scelta di Pratt per questo ruolo, ha dichiarato che la voce della Ronzi De Begnis – prima interprete di Elisabetta – presentava caratteristiche non dissimili da quelle della Pratt: agilità straordinaria e leggerezza, ma con una vena drammatica capace di scolpire i passaggi più intensi.


  
Il risultato è una regina intensa e tormentata, in bilico tra l’austerità del trono e gli scoramenti di una donna ferita. Pratt affronta la partitura con vocalità adamantina, cesellando ogni frase con raffinatezza; la tecnica solida fa da scudo alla gestione dei centri e dei gravi senza fare emergere discrepanze marcate rispetto alla brillantezza degli acuti. Le puntature e le agilità emergono con la consueta sicurezza, mentre l’attenzione meticolosa al fraseggio e la sensibilità musicale danno forma a un personaggio che è capace di commuovere e persino affascinare. Il finale, apice drammatico dell’opera, vede l’artista australiana protagonista di un crescendo emotivo straordinario. Con il sostegno di un tempo orchestrale molto appropriato, “Quel sangue versato” si trasforma in una confessione struggente, in cui ogni parola risuona come un monito e ogni pausa si carica di tensione. La regina, ormai sconfitta dagli eventi, emerge con tutta la sua grandezza tragica, grazie a un uso sapiente del legato e a pianissimi di eterea delicatezza. John Osborn incarna un Roberto Devereux di straordinaria intensità, confermandosi interprete di riferimento per il repertorio belcantistico. La sua voce, leggera ma potente, scivola senza sforzo lungo le ardue tessiture del ruolo, regalando acuti luminosi e una linea di canto impeccabile. Il tenore americano dipinge un Devereux sfaccettato, sospeso tra l’ardore dell’eroe romantico e le fragilità di un uomo in bilico tra onore e passione non limitandosi ad incarnare il favorito della regina con sfrontata eleganza, ma scavando con profondità nei tormenti interiori del personaggio, aggiungendo una dimensione intima e melanconica che emerge nell'aria “Come uno spirto angelico”. Raffaella Lupinacci si distingue con una Sara intensa e vibrante; dona al personaggio una statura di grande spessore, affrontando con padronanza la tessitura complessa del ruolo ed esibendo acuti sicuri e penetranti che si innestano su un registro grave caldo e avvolgente. La sua voce, omogenea e ben proiettata, scivola con naturalezza tra le sfumature dinamiche, offrendo un’interpretazione che coniuga raffinatezza vocale e profondità emotiva. Il canto sulla parola, curato e incisivo, scolpisce ogni frase con intensità drammatica, donando al personaggio una dimensione vibrante e appassionata. Siamo di fronte a una figura femminile tormentata tra l'amore e il dovere, in grado di esprimere con genuinità il dramma interiore di una donna disposta a sacrificarsi per salvare l'uomo che ama. Completa egregiamente il quartetto dei protagonisti il baritono Simone Piazzola, che sa incarnare un Duca di Nottingham di straordinaria intensità, dando vita a un personaggio complesso e sfaccettato; la sua voce baritonale, calda e corposa, risuona con autorevolezza, alternando accenti nobili e appassionati a esplosioni di rabbia feroce scolpendo ogni frase con cura e restituendo con maestria il tormento interiore di un uomo diviso tra amicizia, amore e tradimento. Il colore ricco e vellutato del suo timbro si impone con naturalezza, conferendo spessore aristocratico al duca, ma quando la vicenda precipita, il baritono non esita a liberare una collera implacabile, sottolineata da una potenza vocale capace di riempire la scena. L’eleganza del fraseggio lascia spazio a una spietata risolutezza, rendendo il duca una figura tanto raffinata quanto temibile.

Eccellenti, senza se e senza ma, tutti gli interpreti dei ruoli di fianco: David Astorga (Lord Cecil), Ignas Melnikas (Sir Gualtiero Raleigh) e Fulvio Valenti (Un familiare di Nottingham e Un cavaliere). La platea in tripudio decreta un successo incontrastato per tutti. (La recensione si riferisce alla recita del 23 novembre 2024)
Crediti fotografici: Gianfranco Rota per il Festiva Donizetti di Bergamo Nella miniatura in alto: una eccellente Jessica Pratt nel ruolo di Elisabetta I Tudor Al centro in sequenza: ancora Jessica Pratt; Raffaella Lupinacci (Sara) e John Osborn (Roberto Devereux); Simone Piazzola (Duca di Nottingham) e Raffaella Lupinacci Sotto in sequenza: panoramiche su scene e costumi e primi piani sui protagonisti dell'opera
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