Pubblicato il 23 Settembre 2025
Ripresa a Firenze dell'opera giovanile di Georges Bizet con la bella regia di Wim Wenders
Una perla i Pescatori di perle servizio di Simone Tomei

20250923_Fi_00_IPescatoriDiPerle_JavierCamarena_phMicheleMonastaFIRENZE - La perfezione, si sa, non è di questo mondo. Eppure l’arte, nei suoi momenti più ispirati, ci consente di sfiorarne il mistero, in quella rara alchimia che fa dialogare la forza arcana della musica, la purezza del canto e la poesia della scena. È questa, precisamente, la sensazione che ho provato uscendo dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dopo la recita de Les pêcheurs de perles di Georges Bizet: non un semplice spettacolo, ma un incontro totale con un mondo sonoro e visivo di sorprendente attualità.
Opera in tre atti, rappresentata per la prima volta a Parigi il 30 settembre 1863, viene troppo spesso liquidata - con una certa sufficienza critica - come un mero esercizio giovanile, un prologo alla monumentalità di Carmen. Opinione diffusa, certo, ma profondamente riduttiva. Se è indubbio che Carmen sia l’unicum che ha consegnato Bizet all’Olimpo dei compositori, Les pêcheurs de perles possiede una dignità artistica autonoma e folgorante: in essa si colgono, già pienamente dispiegate, le intuizioni timbriche e teatrali di un genio. L’opera intreccia amore e amicizia in un triangolo di passioni ambigue e struggenti, innesta l’esotismo - così caro al gusto francese di metà Ottocento - in una scrittura musicale che rivela, sin da subito, la mano di un melodista finissimo e di un orchestratore visionario. Dalla tensione dei duetti al celebre coro Brahma, divin Brahma, dai languori notturni dell’aria di Nadir alla nobiltà tragica del sacrificio di Zurga, ogni pagina è un sigillo di quel genio che non può più essere confinato nell’etichetta di “giovane promessa”.
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Ed è proprio questa consapevolezza a essere colta e magnificamente rilanciata dalla regia di Wim Wenders, qui ripresa da Derek Gimpel. Il celebre cineasta, alla sua prima esperienza operistica in Italia, sceglie con intelligenza la via della sottrazione poetica: spoglia la vicenda da ogni orpello esotico, da ogni cartolina di maniera, per restituirla a una essenzialità senza tempo. Lo spazio scenico, disegnato da David Regehr, si compone di pochi, potentissimi elementi evocativi: proiezioni di mari in tempesta, cieli cupi, ombre di palme e improvvisi bagliori di luce che non illustrano pedissequamente la musica, bensì ne amplificano le suggestioni più profonde. Alla stessa logica rispondono i costumi di Montserrat Casanova: linee semplici, tonalità austere, squarciate solo dall’irruzione luminosa del coro nel primo atto, con abiti giallo-zafferano e chiome rosse come un lampo di vita primordiale.
Wenders ha dichiarato di voler condurre il pubblico non verso “qualcosa da vedere”, ma verso la scoperta della musica, affinché sia essa, in ultima istanza, a raccontare la storia. Ebbene, l’intento è pienamente riuscito. La sua regia non è un apparato spettacolare distraente, ma un filtro raffinatissimo che conduce l’occhio e l’orecchio verso un’esperienza di ascolto totale, amplificata. Non si esce dal teatro con l’impressione di aver ammirato una grande mise en scène, bensì con la certezza di aver incontrato, o forse riscoperto, la musica di Bizet nella sua freschezza originaria e nella sua straordinaria capacità di evocare universi interiori. In questo senso il lavoro registico diventa un autentico luogo di riflessione sulla natura del teatro musicale: un’arte che vive della tensione tra suono e immagine, ma che trova la sua verità più profonda quando il gesto scenico ha l’umiltà di farsi servitore della partitura.

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La regia è diventata quindi il fulcro concettuale dello spettacolo, distinguendosi per una coerenza drammaturgica e una raffinatezza estetica ammirevoli. Non ci si è limitati a una mera illustrazione, ma si è costruito un percorso di lettura autentico, capace di mettere in risalto i contrasti interni al dramma e di scandirne le tensioni con precisione chirurgica. I movimenti scenici, sempre funzionali, sono calibrati per far emergere la psicologia dei personaggi e imprimere una fluida continuità al flusso drammatico. È stata resa palpabile la dialettica tra l’intimità dei protagonisti e la dimensione corale della vicenda, orchestrando masse e azioni individuali in un intreccio sempre equilibrato. Un’eleganza figurativa che si è unita a una potente capacità di suggestione.
A completare questo impianto visivo, così sobrio eppure così intenso, hanno contribuito inoltre le luci di Olaf Freese (riprese da Oscar Frosio), che hanno modulato atmosfere e tensioni con un’intelligenza visiva commovente.
La drammaturgia di Detlef Giese ha offerto infine una chiave di lettura limpida e coerente, cucendo insieme regia e musica in un disegno unitario e persuasivo.
Dal podio la direzione del M° Jérémie Rhorer si è rivelata fin dalle prime battute un’altra colonna portante dello spettacolo, una guida sapiente e sensibile per l’intero “popolo” del palcoscenico. I suoi tempi, sempre giusti, gli impeti ben misurati e mai gratuiti, hanno conferito all’opera una freschezza inattesa e un colore esotico degno delle migliori interpretazioni di riferimento. Lodevole, in particolare, la sua capacità di instaurare una sintonia perfetta con i cantanti, i quali hanno sempre recepito e valorizzato ogni più piccola sfumatura suggerita dalla sua bacchetta. La concertazione ha così offerto una visione viva, pulsante, capace di coniugare il vigore ritmico alla più cristallina trasparenza, restituendo appieno la ricchezza di una partitura che non smette di stupire.
Se la regia e la direzione hanno tracciato il solido confine entro cui la magia ha potuto compiersi, la piena riuscita della serata è stata sancita da un cast vocale di primissimo ordine.

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Nei panni di Léïla, Hasmik Torosyan ha letteralmente incantato la sala. La giovane sacerdotessa da lei incarnata è stata una figura di intensità cangiante, sospesa tra innocenza, abbandono amoroso e tormento interiore. Ha dispiegato una padronanza tecnica esemplare: voce omogenea in tutti i registri, timbro chiaro e luminoso, acuti precisi, sicuri e proiettati con eleganza innata. La linea di canto, sempre morbida e controllatissima, le ha permesso di transitare senza la minima frattura dalla delicatezza sognante del primo atto alle tensioni passionali del secondo, fino ai picchi drammatici del terzo. Il suo Ô Dieu Brahma è stato un momento di pura suggestione: una voce sospesa nell’etere, capace di avvolgere il pubblico in un abbraccio sonoro di rara, commovente intensità.
Al suo fianco, Javier Camarena ha firmato un Nadir che si candida a essere un’interpretazione di riferimento. Tenore di cristallina classe, ha saputo coniugare l’eleganza del fraseggio a un ardore contenuto ma palpabile, esibendo un legato fluido e una gestione delle dinamiche di rara finezza. La celebre aria Je crois entendre encore è diventata, nelle sue mani, un autentico momento di grazia: ogni nota cesellata con amore, ogni parola scolpita con senso drammaturgico, culminata in un sovracuto pianissimo - non previsto in partitura - che ha percorso la sala come una vibrazione di luce, strappando un applauso spontaneo e travolgente. Non era semplice virtuosismo, era canto che tocca l’anima.
Un’altra rivelazione per il sottoscritto è stato Lucas Meachem nel ruolo di Zurga. La sua interpretazione ha rivelato un artista completo, di rara versatilità, capace di fondere con naturalezza il rigore belcantistico a una forza teatrale di prim’ordine. La voce, di splendida proiezione e timbro pieno e luminoso, ha impressionato per l’ampiezza del fraseggio e per la raffinata capacità di modulare il colore con intelligenza espressiva, conferendo a ogni frase un significato preciso. Nel duetto con Nadir del primo atto, così come nella grande aria e nel duetto del terzo, ha dato una vera lezione di equilibrio tra canto e azione scenica: veemenza e dolcezza si alternavano con naturalezza, delineando un personaggio al tempo stesso autorevole e vulnerabile, credibile nella tensione emotiva e potente nella presenza. La sua magnetica presenza scenica, unita a un controllo stilistico impeccabile, ha restituito a Zurga quella statura tragica e maestosa che troppo spesso in altre produzioni viene sacrificata, confermandolo come interprete di altissimo livello, capace di elevare la partitura a un autentico esempio di drammaturgia musicale e teatrale.
Completava il quartetto principale Huigang Liu, un Nourabad di grande solidità e autorevolezza. La sua voce, dal timbro scuro e compatto ma non eccessivamente cupo, ha conferito al sommo sacerdote una dignità ieratica, evitando con acume ogni rigidità monocorde. Ha scolpito con precisione le sue poche ma decisive battute, imponendo un’autorevolezza naturale che ha dato al tessuto drammaturgico una base solida e credibile.
In questo disegno così coerente, un ruolo da assoluto protagonista è stato svolto dal Coro del Maggio Musicale Fiorentino, preparato con mano sapiente dal M° Lorenzo Fratini. Le sue voci non sono semplicemente un commento alla vicenda ma ne diventano l’anima stessa, la coscienza collettiva della comunità di pescatori. L’invocazione Brahma, divin Brahma non è solo un momento di colore locale ma un evento drammaturgico di enorme impatto: un blocco sonoro compatto, potente, che fissa l’atmosfera di sacralità e mistero. La presenza scenica, orchestrata dai movimenti registici con impeccabile fluidità, è sempre funzionale alla narrazione. Sono il mare che circonda i personaggi, la legge che li incalza, la folla il cui umore cambia come il vento. La compattezza degli ensemble, la duttilità nel passare dalle preghiere sussurrate all’ira tumultuosa, e la resa impeccabile delle dinamiche più sfumate testimoniano una preparazione meticolosa e una direzione corale di altissimo livello. È il coro a tessere, con le sue trame, l’ambiente stesso in cui la tragedia prende vita.
In definitiva, questa produzione approdata a Firenze non è stata un semplice, pur lodevole, recupero di repertorio; è stato un autentico atto d’amore verso Bizet, un incontro in cui la magia della musica, la sobrietà poetica della scena e l’eccellenza del canto si sono fuse per restituire al pubblico un’opera che, liberata da ogni incrostazione, vibra ancora con intatta, potente bellezza nel nostro tempo. Uno di quegli spettacoli che, per dirla con le parole dello stesso Wenders, non si vedono, ma si scoprono.
E che, una volta scoperti, non si dimenticano… ed aggiungo io PIÙ!
Platea colma e generosa di applausi per tutti.
(La recensione si riferisce alla recita del 21 settembre 2025)

Crediti fotografici: Michele Monasta per il Teatro dell'Opera di Firenze - Maggio Musicale Fiorentino
Nella miniatura in alto: il tenore
Javier Camarena (Nadir)
Sotto, a destra:
Huigang Liu (Nourabad), Hasmik Torosyan (Léïla),
Javier Camarena e il Coro
Al centro e sotto, in sequenza: Hasmik Torosyan e Javier Camarena; Huigang Liu con Lucas Meachem (Zurga); ancora Lucas Meachem; Hasmik Torosyan con Lucas Meachem; panoramiche di Michele Monasta su scene e costumi





Pubblicato il 15 Settembre 2025
La seconda opera di Pietro Mascagni č andata in scena al festival di Livorno con poco pubblico
L'amico Fritz fra sostenitori e detrattori servizio di Simone Tomei

20250915_Li_00_LAmicoFritz_BengisuYamanKoyuncuLIVORNO - Dopo l’esplosione dirompente del successo di Cavalleria rusticana (1890), Pietro Mascagni si trovò davanti a una sfida tutt’altro che semplice: dimostrare di non essere l’autore “di un’opera sola”, consacrato dalla fortuna di un libretto tratto da Verga. Ed è in questo clima che nacque L’amico Fritz, andato in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 31 ottobre 1891. L’accoglienza fu calorosa e il successo immediato, ma presto l’opera conobbe un lento declino, fino a scomparire quasi del tutto dai cartelloni.
Come spesso accade con Mascagni, anche L’amico Fritz ha suscitato reazioni critiche discordanti, oscillanti tra l’entusiasmo e la stroncatura. Una contraddittorietà che ben fotografa l’intera produzione del compositore, definita da Cesare Orselli “capace di fornire validi argomenti tanto ai propri sostenitori quanto ai propri detrattori”. Nella sua musica si alternano, spesso nello spazio di poche battute, intuizioni luminose e soluzioni convenzionali, freschezza melodica e formule stereotipate. Mancava forse quel cesello formale che contraddistingue Puccini, ma proprio questa tensione tra impeto creativo e irregolarità strutturale rappresenta il tratto più affascinante dello stile mascagnano: l’immediatezza espressiva, nutrita da una ricchezza melodica che sembra sgorgare con naturalezza.

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L’opera prende spunto dal romanzo Ami Fritz di Émile Erckmann e Alexandre Chatrian. La storia del libretto fu travagliata: inizialmente affidato a Zanardini su incarico dell’editore Sonzogno, passò poi a Nicola Daspuro e infine venne rielaborato dai fidati Menasci e Targioni Tozzetti, che firmarono con lo pseudonimo “P. Suardon”. Mascagni voleva un testo semplice, quasi esile, che lasciasse pieno spazio alla musica: dopo i toni tragici e sanguigni di Cavalleria rusticana, la sua scommessa era misurarsi con un libretto leggero, di stampo idillico, dove potessero emergere lirismo e sentimento.
La trama, prevedibile ma coerente con il genere, si muove nei binari della commedia sentimentale: Fritz, scapolo benestante e convinto celibe, finisce per innamorarsi della giovane Suzel, figlia di un contadino. Attorno a loro ruotano figure di contorno, come il rabbino David, che con sagacia favorisce l’unione. Non ci sono grandi colpi di scena: il fascino dell’opera sta piuttosto nei quadretti agresti e nell’atmosfera serena e idillica, in netto contrasto con il realismo drammatico di Cavalleria.
Dal punto di vista musicale, Mascagni abbandona i colori forti e i contrasti violenti per una scrittura più lieve e variata, dal gusto impressionista, con orchestrazioni leggere e linee melodiche ariose. L’opera procede come una successione di bozzetti lirici, in cui spiccano la freschezza melodica e il colore orchestrale. Celebre resta il “Duetto delle ciliegie”, apparentemente ingenuo ma ricco di raffinatezze armoniche e timbriche. Mascagni predilige la proliferazione melodica e la variazione continua, evitando schemi troppo simmetrici o prevedibili: più che una costruzione rigorosa, sembra un dipinto di atmosfere.
Non a caso Gustav Mahler, che diresse l’opera ad Amburgo nel 1893, ne colse la sottigliezza e la difficoltà di esecuzione, impegnandosi personalmente per imporla al pubblico.

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Anche la ricezione di L’amico Fritz è rimasta sempre ambivalente. Alcuni l’hanno considerata un piccolo gioiello di grazia melodica, una partitura “per cuori buoni”, come la definì Mascagni stesso scrivendo a Sonzogno. Altri, invece, l’hanno giudicata un’opera ruffiana, costruita su melodie facili e artifici sentimentali. Ma è proprio in questa semplicità che risiede la sua originalità: L’amico Fritz disegna un mondo di buoni sentimenti, un idillio sereno che si oppone tanto al pessimismo verista di Giovanni Verga quanto alla violenza tragica di Cavalleria rusticana.
La scelta di riprendere l’allestimento del centenario 1991, firmato dalla Fondazione Teatro Goldoni, conferisce a questa produzione il valore di un omaggio alla tradizione, pur nella volontà di restituire all’opera la sua freschezza originaria.
La regia di Carlo Antonio De Lucia ha saputo trovare un equilibrio tra fedeltà all’impianto scenico e valorizzazione della dimensione intima della vicenda, evitando sovrastrutture concettuali e lasciando che la musica di Mascagni parlasse con la sua immediatezza lirica. Di notevole impatto il disegno luci di Michele Rombolini, capace di creare atmosfere delicate e suggestive: i chiaroscuri, calibrati con sensibilità, sottolineano i passaggi più introspettivi, mentre le aperture luminose accompagnano i momenti corali e gli slanci melodici della partitura. L’utilizzo dello spazio scenico si rivela armonioso e ben proporzionato: i movimenti degli interpreti sono fluidi e misurati, senza eccessi, e contribuiscono a mantenere l’equilibrio complessivo tra azione e musica. De Lucia ha inoltre lavorato con attenzione sulle relazioni interpersonali, delineando con cura sia le dinamiche di gruppo sia i momenti più intimi, in particolare quelli legati alla progressiva consapevolezza dei sentimenti tra Fritz e Suzel.
Il cast riunito dal Teatro Goldoni ha mostrato un buon equilibrio complessivo, frutto di un riuscito incontro tra professionisti già affermati e giovani promesse provenienti dalla Mascagni Academy e dal concorso dedicato al compositore livornese. Ne è scaturito un insieme coeso, capace di restituire lo spirito dell’opera, pur con qualche disomogeneità legata all’inesperienza di alcuni interpreti.
Enrico Guerra, nel ruolo del protagonista Fritz Kobus, ha offerto una prova di eleganza e misura. La sua linea di canto si è rivelata particolarmente a suo agio nella zona centrale, dove il fraseggio trovava naturalezza e la parola scenica era sempre ben collocata. Diverso il discorso per il registro acuto che ha mostrato qualche fragilità: gli attacchi non sempre risultavano perfettamente centrati e talvolta le note tendevano a calare, smorzando l’intensità del discorso musicale. Si tratta comunque di un’interpretazione costruita con intelligenza e coerenza, che ha saputo restituire al personaggio i tratti di signorile malinconia richiesti dalla scrittura mascagnana.
Suzel aveva il volto e la voce di Bengisu Yaman Koyuncu, che ha portato in scena la freschezza ingenua e quasi trattenuta della giovane contadina. Il suo canto, delicato e composto, ha però sofferto di una certa uniformità espressiva: mancano ancora quelle sfumature di colore e quella maturità interpretativa che permetterebbero al personaggio di vibrare di autentica emozione. La zona grave, in particolare, ha evidenziato un vibrato molto accentuato che rendeva l’emissione talvolta un po’ stentorea, meno limpida e precisa. Ne emerge una prova corretta, ma ancora acerba, che non riesce a superare la soglia della semplice esecuzione ben preparata.

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Un tocco di poesia lo ha portato in scena Arlene Miatto Albeldas, nei panni di Beppe, ruolo en travesti dalla natura lirica e simbolica. La sua vocalità, più vicina a mio avviso al registro del soprano che a quello del mezzosoprano, ben si adattava a questa parte ibrida, che da sempre lascia spazio a interpretazioni differenti. La linea di canto è stata sempre intonata e a fuoco, con una resa scenica spontanea e convincente: un piccolo cameo, capace però di illuminare i momenti in cui Beppe irrompe in scena con la sua leggerezza quasi pastorale.
Su tutti ha primeggiato Stavros Mantis, un David il Rabbino di grande carisma, in grado di riempire la scena con la sola presenza. La sua vocalità, ampia, sonora e al tempo stesso nitida, si è sposata con un fraseggio elegante e incisivo, che ha conferito al rabbino amico di Fritz una profonda autorevolezza morale e una dimensione quasi paterna. La sua interpretazione è stata un punto fermo della serata, il più solido riferimento sia vocale che drammaturgico.
Anche i ruoli minori sono stati tratteggiati con cura: Orlando Polidoro (Federico), Davide Chiodo (Hanezò) e Virginia Moretti (Caterina) hanno dato vita a caratterizzazioni ben delineate, sempre al servizio della coralità dell’opera. Hanno contribuito a creare quell’equilibrio d’insieme che, in una partitura come questa, dove i toni idilliaci e pastorali prevalgono sul dramma, risulta fondamentale.
Un cenno merita anche il lavoro del Coro, preparato e diretto dal M° Maurizio Preziosi. Resta inspiegabile l’assenza del coro al termine del primo atto – scelta che rimane un piccolo “mistero” e che ha sottratto un momento di coralità all’economia drammaturgica dell’opera. Per il resto, nella sua collocazione fuori scena, il complesso ha saputo inserirsi con misura e proficuità all’interno del melodramma, restituendo quei brevi ma significativi squarci di partecipazione collettiva che contribuiscono a definire l’atmosfera pastorale e comunitaria dell’opera mascagnana.
Alla guida dell’Orchestra del Teatro Goldoni “Massimo de Bernart”, il M° Stefano Vignati ha offerto una lettura che si è mossa lungo coordinate in parte divergenti rispetto all’essenza più intima dell’opera. L’amico Fritz, per sua natura, è un esercizio di sottrazione, un microcosmo pastorale dove la delicatezza orchestrale e la linearità descrittiva prevalgono sulle tensioni drammatiche. Mascagni, in questa partitura, predilige un registro lirico e contemplativo: il celebre duetto delle ciliegie nel secondo atto non rappresenta un culmine narrativo in senso tradizionale, bensì un passaggio poetico che, con grazia e semplicità, illumina l’intero intreccio. È qui che emerge la sua maestria armonica e timbrica, in un tessuto musicale che sembra evocare tanto il leitmotiv wagneriano quanto le raffinate sfumature impressionistiche di area francese, prossime a Debussy e Fauré. L’approccio del direttore, tuttavia, ha privilegiato un piglio più energico e talvolta roboante, che ha finito per sacrificare quelle sottili perle disseminate nella scrittura, piccoli dettagli timbrici e dinamici che costituiscono l’anima segreta dell’opera. Se lo spazio più sinfonico dell’introduzione e del celebre intermezzo è stato gestito con chiarezza e una certa brillantezza orchestrale, meno convincente è parso l’accompagnamento nelle sezioni con canto: qui il tessuto strumentale, invece di farsi diafano sostegno, è risultato talvolta troppo denso, fino a sommergere frasi e inflessioni dei cantanti, creando un effetto di impasto sonoro che ha penalizzato la trasparenza della scrittura. Ne è emersa dunque una concertazione che, pur solida nella tenuta complessiva, non sempre ha saputo restituire quella leggerezza drammaturgica che fa dell’opera mascagnana un gioiello di equilibrio e misura, distante anni luce dai furori veristi di Cavalleria rusticana.
In conclusione sottolineo l’ottimo apporto del violinista Brad Rapp nello struggente intervento del primo atto.
Sala semivuota, ma calorosa.
(La recensione si riferisce alla recita di sabato 13 settembre 2025)

Crediti fotografici: Ufficio stampa del Festival Mascagni - Teatro Goldoni di Livorno
Nella miniatura in alto: il soprano Bengisu Yaman Koyuncu (Suzel)
Sotto, in sequenza: Enrico Guerra (Fritz) e Bengisu Yaman Koyuncu; Stavros Mantis (David il Rabbino), VirginiaMoretti (Caterina), Enrico Guerra; Stavros Mantis e Bengisu Yaman Koyuncu
Al centro e sotto, in sequenza: panoramiche su costumi e allestimento





Pubblicato il 03 Settembre 2025
Diamo conto dell'eccellente resa artistica di un dittico al Mascagni Festival anche prima della ''prima''
Ode a Leopardi e Medium prova generale servizio di Simone Tomei

20250901_Li_00_OdeALeopardi_Mascagni Festival2025LIVORNO – In un Mascagni Festival sempre più attento al dialogo fra memoria storica e ricerca espressiva, la serata del dittico Ode a Leopardi di Pietro Mascagni e The Medium di Gian Carlo Menotti, presentata agli Hangar Creativi, ha offerto un accostamento insolito ma fecondo tra due poetiche distanti eppure unite dalla tensione verso il mistero della parola e del suono. È opportuno chiarire che la la presente cronaca dell'evento musicale si riferisce alla prova generale del 2 settembre 2025: circostanza non usuale per chi scrive, ma resa necessaria dall’eccellente qualità di tutti i musicisti e protagonisti.
L’Ode a Leopardi è un poema musicale che Mascagni concepì nel 1898, durante la direzione del Liceo Musicale di Pesaro, con debutto a Recanati il 29 giugno dello stesso anno: il compositore, nella nota introduttiva alla partitura, ne tracciava l’itinerario come un vero invito all’ascolto: «... così che ho cominciato con il dolore della nascita che ci dà subito il tema della tristezza che non abbandonerà il Poeta mai più, poi accenno alla gioventù viene il palpito d’amore, poi l’amor di Patria, l’amore infelice e infine la morte, la morte liberatrice…»

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Parole che riflettono l’ammirazione sincera e un entusiasmo giovanile, ma che suscitarono anche dure reazioni critiche: Giannotto Bastianelli, in Pietro Mascagni. Con nota delle opere e ritratto (Napoli, Riccardo Ricciardi, 1910), non esitava a scrivere: «Mi resterebbe, avanti di passare all'Iris, di parlare del Poema leopardiano. Ma io chiedo venia ai lettori se per rispetto alla innocente gioventù della fresca melodia mascagnana, e per rispetto alla dignità della mia critica, io getto un velo pietoso su questo fallo di gioventù del Mascagni. Ho già troppo robustamente lineato il profilo di quest'arte, perché ne debba ancora dimostrare l'indifferenza adolescentesca davanti alle altezze più pure e più formidabili dello spirito umano. Mascagni e Leopardi sono due spiriti che, avvicinati, fanno provare la vertigine; appartengono quasi a due mondi diversi. Credo che sarebbe un giochetto puerile dimostrare una cosa a cui tutti credono: che Mascagni non può capire nè quindi cantare Giacomo Leopardi. È possibile che Riccardo Strauss, decadente fin nella midolla delle ossa, senta tutto il decadentismo raffinato ed astuto che già s'annida nel nietzschiano Also sprach Zarathustra. Ma è impossibile che un fanciullo, un monello livornese possa comprendere il pensiero di Leopardi. Tutt'al più farà, come ha fatto Mascagni, un compito diligente sul tipo di quelli dal tema: ditemi che sentimenti vi suggerisce la tomba di Torquato Tasso, o qualche altra tomba o destino umano di cui si sia impadronita senza remissione la retorica scolastica.»
Queste parole, gettano un ponte diretto fra la sensibilità compositiva di Pietro Mascagni e la proposta cameristica del Festival a lui intitolato, sottolineando come il dolore leopardiano diventi filo conduttore non solo poetico ma anche formale.

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Nella nuovissima versione per due pianoforti e soprano curata da Gabriele Baldocci e presentata in prima assoluta, la scrittura si fa nitida, cameristica, capace di valorizzare trasparenze timbriche e raccordi motivici spesso inghiottiti dall’impasto orchestrale. Lo stesso Baldocci, al pianoforte insieme a Massimo Salotti, ha guidato l’esecuzione con gesto concertante: tempi mobili, articolazione fluida, contrasti calibrati, mentre Salotti ha offerto un sostegno duttile e un respiro orchestrale che ha reso credibile la riduzione a due tastiere.
Il soprano Sara Di Fusco, anche nella prova generale, ha restituito la parola leopardiana con intelligenza e sobrietà: voce dal centro raccolto, acuti luminosi, fraseggio curato, nessuna concessione a verismi di maniera, piuttosto un cesello sulla dizione e sulle mezzevoci che hanno restituito l’atmosfera metafisica del Canto notturno e l’energia civile di All’Italia.
L’accostamento con The Medium di Gian Carlo Menotti, tragedia in due atti composta nel 1946 e subito diventata un successo internazionale, ha rivelato un altro versante del teatro musicale Novecentesco: qui il soprannaturale e la riflessione psicologica si intrecciano in un tessuto musicale costruito su recitativi intensi e aperture melodiche struggenti, con un linguaggio prevalentemente tonale ma non privo di tensioni politonali e atonali funzionali al dramma. La versione per due pianoforti, approntata dallo stesso autore e riproposta al Festival livornese, ha reso con essenzialità l’incisività della scrittura, sostituendo all’orchestrazione cameristica una tensione nervosa scandita dai tasti, affidati anche in questo caso ai maestri Gabriele Baldocci e Massimo Salotti, capaci di sottolineare con chiarezza i leitmotiv e i nervosismi della partitura.
In tale contesto il M° Jacopo Suppa ha avuto un ruolo decisivo: la sua concertazione è stata esemplare per rigore e musicalità, unendo ritmo serrato e afflati lirici, capace di cesellare i non semplici intrecci menottiani senza mai appiattirne le asperità. Ha trovato un equilibrio raro tra precisione agogica e respiro teatrale, sostenendo i cantanti con elasticità e tenendo sempre vivo il filo della narrazione, facendo emergere motivi e cellule drammatiche con chiarezza e coerenza.
Anastasia Egorova ha disegnato una Madama Flora a fuoco: proiezione centrale robusta, parola masticata con intelligenza, declamato che non cade nel parlato, con un crollo finale costruito per piani progressivi e mai affidato a un urlato gratuito.
Sara Di Fusco, tornata in scena come Monica, ha sfoggiato un colore più luminoso e un fraseggio morbido: la ninna nanna “Black Swan” è stata tratteggiata con semplicità, mentre la linea vocale si è mantenuta sempre a fuoco nelle mezzevoci.
Lorenzo Liberati e Ginevra Gentile, nei panni dei coniugi Gobineau, hanno offerto tempo teatrale e precisione sillabica, diventando utile bussola nelle zone di ensemble.
Esterina Esposito, Mrs Nolan, ha colpito per il timbro brunito e omogeneo, risolvendo bene il cameo del racconto con accenti naturali e fraseggio elegante.
Fabio Vannozzi, nel ruolo muto di Toby, ha convinto con presenza scenica forte, tempi interiori misurati e gestualità essenziale ma sempre eloquente.
La regia di Vincenzo Maria Sarinelli ha scelto un registro volutamente didascalico, che in questo caso si è rivelato punto di forza: linee di azione chiare, movimenti semplici ma efficaci, arricchiti dall’uso di proiezioni video e fotografiche curate con la collaborazione degli studenti e docenti del Liceo Artistico Vespucci/Colombo di Livorno, capaci di amplificare la dimensione sospesa fra realtà e illusione del dramma menottiano.
Queste immagini, insieme all’ambiente quasi “esoterico” degli Hangar Creativi e alle luci curate da Massimiliano Calvetti, hanno aggiunto profondità visiva senza mai distrarre dal cuore teatrale.
La prova generale del 2 settembre 2025 ha mostrato una tenuta complessiva solida: la coesione tra interpreti, regia e direzione musicale hanno dato vita a un dittico che non è semplice accostamento di rarità, ma percorso coerente tra poesia e teatro musicale, tra introspezione e dramma, con una qualità esecutiva che già in prova ha avuto la compiutezza di una “prima”.

Crediti fotografici: E. Baldanzi per il Mascagni Festival di Livorno
Nella miniatura in alto: Pietro Mascagni giovane in un ritratto a matita
Sotto in sequenza: scena da Ode a Leopardi e The Medium in scena al Festival Mascagni di Livorno





Pubblicato il 31 Agosto 2025
Il regista Daniele De Plano riprende e valorizza il lavoro di Igor Mitoraj di ventidue anni prima
Manon Lescaut fra le sculture blu servizio di Simone Tomei

20250831_TorreDelLago_00_ManonLescaut_MariaJoseSiri_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) - Il 71° Festival Puccini si avvia alla conclusione con l’ultimo debutto operistico della stagione in una serata di fine agosto molto suggestiva: Manon Lescaut è tornata al Gran Teatro sulle sponde del Massaciuccoli nella produzione di Igor Mitoraj del 2003, ripresa con cura nella regia di Daniele De Plano, scene di Luca Pizzi e costumi di Cristina Da Rold. Dopo giorni incerti sul fronte meteorologico, un ampio arcobaleno comparso poco prima dell’inizio ha dato alla serata un’aura quasi simbolica, come a siglare l’unione tra natura e teatro.
Non è stata una semplice riproposizione ma un'opera d'arte che tornava a vivere. La scenografia di Mitoraj non si limita a "raccontare" la storia, la filtra attraverso un'estetica senza tempo. I volti blu giganti restaurati per l'occasione, i nudi scultorei (uno maschile, uno femminile) e il possente torso finale non sono semplici elementi scenici: sono la lente attraverso cui osserviamo la tragedia. Daniele De Plano ha abbracciato questa visione, creando una regia quasi scultorea. Le figure si muovono con gesti essenziali, spesso inserite in quadri statici o contro superfici monocrome, come in una fotografia d'altri tempi. È un'esperienza che ci allontana dalla cronaca per immergerci in un'allegoria universale di caduta e desiderio, dove i dettagli svaniscono per far posto a un impatto visivo e simbolico di enorme potenza.
Il lavoro di Luca Pizzi è stato magistrale, ottimizzando l'intera macchina scenica per il palcoscenico del Gran Teatro. Cristina Da Rold, con i suoi costumi, ha rispettato e valorizzato la tavolozza di Mitoraj: tessuti opachi, ori delicati, bianchi gessosi che si fondono con il blu delle sculture, creando un'armonia visiva rara.

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E poi c'erano le luci di Valerio Alfieri. Non semplici illuminazioni ma una vera e propria partitura invisibile. Ha saputo dipingere l'atmosfera: un fondale lattiginoso nel primo atto, controluce che scolpivano i corpi nel salotto del secondo, un'alba quasi metallica per il porto e infine un deserto abbacinato dove i corpi sembravano fondersi con la pietra.
La bellezza di Manon Lescaut risiede proprio nel suo essere un'opera-collage. È come un grande affresco musicale costruito con pezzi presi da diverse mani poetiche e soluzioni sonore che, in modo sorprendente, si uniscono in un tutto coerente. Puccini, con il libretto scritto a "sette mani", ha trasformato le discontinuità narrative in una forza drammaturgica.
Il tessuto musicale è un tesoro di auto-prestiti, con melodie che tornano e si evolvono, come vecchi amici che si ritrovano in un nuovo contesto. La partitura è un dialogo aperto con i grandi maestri: si sente l'ombra di Wagner, con i suoi accordi sospesi, specialmente nell'Intermezzo e nel duetto del secondo atto, e poi l'energia di Verdi, con i suoi ritmi e le sue fughe. Ma Puccini non si limita a copiare: assorbe, piega e trasforma, usando questi modelli per esaltare il suo genio.
Il terzo atto si è confermato un autentico capolavoro di anticonformismo: invece di aprirsi con un’aria lirica, Puccini affida l’avvio alla voce del sergente che chiama all’appello, innestando un progressivo accumulo di tensione orchestrale che culmina nell’esplosione emotiva del celebre "Guardate, pazzo son" di Des Grieux nel terzo atto.

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Ma è stato il quarto atto, spesso oggetto di discussione, a trovare ieri sera una dimensione particolarmente intensa grazie alla prova del soprano Maria José Siri: al suo debutto al Festival Puccini, la Siri ha delineato una Manon di grande spessore, voce duttile e capace tanto di morbidezza nelle “trine” del secondo atto quanto di accenti drammatici nel finale. Colpita da un incidente poco prima dell’ultimo quadro, ha scelto di proseguire da seduta: una condizione che avrebbe potuto limitare la resa scenica si è trasformata invece in una forza drammaturgica inattesa. La grande aria "Sola, perduta, abbandonata" è diventata così un monologo quasi disarmante per intensità e raccoglimento, in cui la sospensione dell’azione e la “pienezza” sonora della partitura si sono tradotte in un rito di immobilità, restituendo un deserto interiore che ha fatto percepire al pubblico tutta la disperazione di Manon. L’ovazione che ne è seguita ha suggellato una prova di grande coraggio artistico ed espressivo.
Luciano Ganci (Des Grieux) ha delineato un cavaliere appassionato, lirico nello slancio del primo atto e vigoroso nel monologo del terzo, sempre attento al fraseggio e alla parola.
Claudio Sgura (Lescaut) ha dato spessore e colore al fratello della protagonista, mentre Giacomo Prestia (Geronte di Ravoir) ha portato in scena un personaggio saldo e autorevole, mai caricaturale.
Paolo Antognetti (Edmondo), fresco e brillante, ha aperto l’opera con un tono vivace e luminoso, mentre Matteo Mollica (L’oste), Alessandra Della Croce (Un musico), Nicola Pamio (Maestro di ballo), Manuel Pierattelli (Un lampionaio), Roberto Rabasco (Sergente degli arcieri) e Omar Cepparolli (Comandante di marina) hanno completato il cast con precisione e stile.
Il Coro del Festival, diretto dal M° Marco Faelli, ha garantito compattezza ed equilibrio, con particolare efficacia nella scena del porto, vero cuore corale dell’opera.
L’orchestra, sotto la guida del M° Valerio Galli, ha saputo trovare un equilibrio non semplice: la sua direzione ha evitato ogni compiacimento e ha restituito il senso di un’opera che vive di contrasti e di varietà, alternando momenti di morbida cantabilità ad altri di tensione serrata. Ha avuto il merito di sottolineare le differenze di stile senza frammentare il discorso, restituendo unità a un’opera che nasce dalla pluralità.

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Alla fine il pubblico - meno numeroso di altre “prime” - ha tributato un successo caloroso, con applausi prolungati a tutti gli interpreti e una riconoscenza speciale per la generosità di Maria José Siri.
(La recensione si riferisce alla recita di sabato 30 agosto 2025)

Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti, Marilena Imbrescia e Nicola Gnesi per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il soprano Maria José Siri (Manon Lescaut)
Sotto in sequenza: Claudio Sgura (Lescaut) e Giacomo Prestia (Geronte di Ravoir); Luciano Ganci (Des Grieux); Paolo Antognetti (Edmondo) con Luciano Ganci; ancora Luciano Ganci con Maria José Siri; panoramica di Giorgio Andreuccetti sul primo atto
Al centro, in sequenza: altra panoramica di Andreuccetti; ancora Luciano Ganci con Maria José Siri; l'angelo/demone dalle ali rosse davanti a una scultura di Mitoraj; altre panoramiche su allestimento e costumi
In fondo: Luciano Ganci, Maria José Siri e l'angelo/demone nel finale dell'opera





Pubblicato il 25 Agosto 2025
Anche la replica dell'opera ''giapponese'' di Giacomo Puccini conferma il gradimento del pubblico
Sepe una delicata Butterfly servizio di Nicola Barsanti

20250825_00_TorreDelLago_MadamaButterfly_AntoninoFogliani_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) – Diamo conto ai nostri lettori della replica del quarto titolo in cartellone nell’ambito del 71° Festival Puccini: Madama Butterfly. Per regia, scene e costumi rimandiamo alla recensione della prima rappresentazione che potete consultare qui .
La principale differenza rispetto al debutto riguarda il ruolo del titolo, qui affidato al soprano Valeria Sepe, che si distingue per un canto sfaccettato, pur con un’emissione talvolta “piccolina”, la quale le impedisce in alcuni momenti di affondare pienamente nella drammaticità richiesta dalla scrittura pucciniana. Tale impressione si avverte in particolare nell’estrema "Tu, tu piccolo Iddio", mentre la sua vocalità appare più funzionale nel celebre "Un bel dì vedremo" e nel lirico duetto d’amore che conclude il primo atto. Ne deriva una Butterfly delicata, intessuta di grazia e raffinatezza, dal carattere mesto ma al contempo deciso.
Vincenzo Costanzo (Pinkerton) conferma le positive impressioni della prima recita: il tenore mostra un timbro chiaro, con acuti sostenuti da un fiato saldo, capace di un fraseggio elegante e di un legato pregevole. Sa restituire con efficacia la passione e la spavalderia del personaggio, rendendo particolarmente convincente il contrasto emotivo del suo 2Addio, fiorito asil", dove il rimorso e il rimpianto si fanno intensamente palpabili.

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La Suzuki di Chiara Mogini si presenta più a fuoco rispetto al debutto, con una tessitura vocale meglio distribuita e una dinamica più sicura. Permane a tratti l’impressione che la tavolozza timbrica non sia sfruttata in tutta la sua gamma, ma la resa scenica, intensa e partecipata, compensa questa parziale limitazione, rendendo il personaggio credibile e funzionale al dramma.
Nel ruolo di Sharpless, Luca Micheletti offre una prova di grande maturità vocale e artistica: il timbro caldo e avvolgente si presta a restituire con autorevolezza la figura del console, mentore e coscienza morale contrapposta a un Pinkerton goliardico e incosciente. La sua interpretazione restituisce al personaggio spessore, originalità e una convincente forza narrativa.
Qualche difficoltà timbrica si nota nella performance di Nicola Paimo (Goro), che tuttavia risulta efficace sul piano scenico, assolvendo con sicurezza al ruolo di “agente di ventura” che orchestra il destino della protagonista.
Completano il cast con buon rendimento musicale e teatrale Francesca Paoletti (Kate Pinkerton), Manuel Pierattelli (Yamadori), Andrea Tabili (Lo zio Bonzo), Francesco Auriemma (Yakusidé), Roberto Rabasco (Il Commissario imperiale), Francesco Lombardi (LUfficiale del registro), Claudia Belluomini (La Zia), Maria Salvini (La Madre), Irene Celle (La Cugina), Valentin DallAmico Brambach (Dolore).
La direzione dell’Orchestra del Festival Puccini è affidata al maestro Antonino Fogliani, che valorizza la scrittura struggente della partitura, restituendo il dramma con contrasti netti e progressivi fino all’inevitabile culmine dell’atto estremo. L’intensità degli archi e la precisione delle percussioni conferiscono profondità dinamica e un respiro immersivo che amplifica la tensione emotiva.
Bene anche il Coro del Festival Puccini, istruito dal maestro Marco Faelli, che partecipa con compattezza e precisione.
La serata si conclude tra grandi emozioni e una viva partecipazione del pubblico, che tributa applausi convinti a tutti gli interpreti, suggellando un successo condiviso e sentito.
(la recensione si riferisce alla recita di sabato 23 agosto 2025)

Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto; il direttore Antonino Fogliani
Sotto, in sequenza: Luca Micheletti (Sharpless) con Vincenzo Costanzo (Pinkerton); Valeria Sepe (Cio Cio San): Vincenzo Costanzo con Valeria Sepe





Pubblicato il 16 Agosto 2025
Turandot secondo cast - La replica dell'opera di Puccini offre al pubblico una bella sorpresa
Alina Tkachuk la rivelazione servizio di Nicola Barsanti

202516_TorreDelLago_00_Turandot_AlinTkachukTORRE DEL LAGO (LU) - La rappresentazione di Turandot al Gran Teatro Giacomo Puccini, nell’ambito del 71° Festival Puccini, propone una lettura scenica affidata alla regia di Alfonso Signorini, la cui impronta visiva rimanda all’articolo della prima rappresentazione che potete trovare qui. L’allestimento conferma la forza visiva e simbolica dell’opera, ma è soprattutto la resa musicale a imprimere al pubblico un’esperienza intensa e coinvolgente che qui analizziamo.

Olga Maslova interpreta la principessa Turandot con un’autorità vocale che domina la scena e avvolge l’ascoltatore: gli acuti risuonano luminosi e sicuri, mentre l’agilità del fraseggio nei passaggi virtuosistici crea un effetto quasi ipnotico, come se il gelo della principessa si manifestasse in ogni nota. Nei momenti più intimi, come per l'aria "In questa reggia", emerge una sottile vulnerabilità, un fremito di umanità che illumina la freddezza del personaggio, rendendo la Turandot di Maslova al contempo imponente e profondamente umana.
Massimiliano Pisapia, nel ruolo dell’ Imperatore Altoum, conferisce stabilità e compostezza, la sua voce chiara e misurata si inserisce con naturalezza nei passaggi corali e orchestrali, creando un ancoraggio tonale essenziale alla tensione drammatica.
Vittorio De Campo, interprete di Timur, trasmette dignità e profondità emotiva: la sua linea grave e uniforme sottolinea la tragedia e la nobiltà paterna, senza eccessi ma con elegante autorevolezza.

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Dario Di Vietri è un Calaf dal timbro caldo e avvolgente: "Non piangere, Liù" si apre con morbidezza e intensità, una carezza musicale che si inserisce nel tessuto drammatico dell’opera. Qualche tensione tecnica affiora nel secondo atto, ma viene superata senza intaccare la musicalità, fino a "Nessun dorma", dove il crescendo progressivo fino al Vincerò! finale esplode con solennità e splendore, suggellando il carattere determinato e passionale del principe ignoto.
Alina Tkachuk, nel ruolo di Liù, è senza dubbio la rivelazione della serata: la sua vocalità, calibrata con precisione sul personaggio, unisce dolcezza, trasparenza e intensità drammatica. In "Signore, ascolta!" costruisce frasi lunghe con legato uniforme e controllo del fiato, modulando pianissimo e crescendo con naturalezza, mentre in "Tu che di gel sei cinta" raggiunge l’apice espressivo e emotivo: ogni nota alta e ogni sfumatura dinamica contribuiscono a creare un momento di commozione autentica, facendo di Liù il cuore sentimentale dell’opera e incarnando il sacrificio e la devozione con una delicatezza che tocca direttamente lo spettatore.
I tre ministri Ping, Pang e Pong, interpretati rispettivamente da Sergio Vitale, Andrea Tanzillo e Tiziano Barontini, offrono una performance coerente, ritmicamente precisa e stilisticamente calibrata. Barontini evidenzia occasionalmente un timbro leggermente più graffiante, ma questa caratteristica contribuisce al tratteggio caricaturale del personaggio, creando i necessari momenti di leggerezza e comicità che bilanciano la tensione drammatica dell’opera.
I comprimari, tra cui Luca Dall’Amico (Mandarino), Andrea Volpini (Principe di Persia), Irene Celle (Prima Ancella) e Maria Salvini (Seconda Ancella), si inseriscono con puntualità e chiarezza nel tessuto orchestrale e corale, integrandosi armoniosamente e senza distrazioni dalla linea principale della narrazione.
Il maestro Renato Palumbo propone una lettura attenta e raffinata della partitura, valorizzando le sfumature timbriche di Puccini e mettendo in luce la complessità orchestrale dell’opera. Pur con qualche lieve difficoltà della sezione ottoni nel seguire perfettamente le indicazioni, la direzione mantiene coerenza e precisione, permettendo ai solisti di emergere senza forzature. La partitura di Franco Alfano, che completa il terzo atto, è eseguita con naturalezza e rispetto, integrandosi in modo fluido nella visione pucciniana e rispettando la continuità drammatica costruita dal maestro lucchese.
Bene anche per il Coro e il Coro di voci bianche rispettivamente istruiti dai maestri Marco Faelli e Chiara Mariani.
L’equilibrio tra solisti, coro e orchestra permette di percepire pienamente l’epicità dell’opera, dalla suggestiva apertura fino al climax del terzo atto, senza mai perdere chiarezza e coesione.

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In sintesi, la recita conferma un cast tecnicamente solido, una gestione orchestrale attenta e un coro ben calibrato. Le arie principali ("In questa reggia", "Non piangere, Liù", "Nessun dorma", "Signore, ascolta!", "Tu che di gel sei cinta") sono affrontate con sicurezza e musicalità, il fraseggio è chiaro e le sfumature dinamiche ben dosate, restituendo una lettura coerente e fedele della partitura pucciniana, capace di unire rigore tecnico ed emozione scenica.
(La recensione si riferisce alla recita di giovedì 14 agosto 2025)

Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il soprano Alina Tkachuk (Liù)
Sotto, in sequenza: belle panoramiche sull'allestimento torrelaghese





Pubblicato il 09 Agosto 2025
Bellissima regia di Manu Lalli per la prima opera ''esotica'' scritta da Giacomo Puccini
Butterfly e la simbologia degli alberi servizio di Simone Tomei

20250809_TorreDelLago_00_MadamaButterfly_MariaAgresta_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) - Madama Butterfly di Giacomo Puccini è il quarto titolo a susseguirsi sul palcoscenico del Festival Puccini di quest’anno. Per la sua 71ª edizione, la rassegna ha affidato la regia a Manu Lalli, che propone una lettura capace di andare oltre la mera rappresentazione scenica, trasformando il linguaggio visivo e simbolico in un elemento narrativo essenziale: la “sua” Madama Butterfly non è un’operazione nostalgica o puramente tradizionale, ma un dialogo attuale e pregnante con temi di grande rilevanza contemporanea, tra cui l’ecologia, i diritti delle donne e la riflessione sul rapporto dell’uomo con la natura.
Gli elementi cardine di questa messinscena  - la regia, la scenografia e i costumi - si rivelano strumenti potentissimi per cogliere la profondità di un’opera che parla a molteplici livelli: emotivo, simbolico e filosofico.
La visione registica di Manu Lalli, definita, si caratterizza per una forte impronta concettuale che trascende il realismo letterale. Lo spettatore viene trasportato in uno spazio teatrale psicologico e metaforico, dove la tragedia scorre fluida tra piani temporali e realtà differenti. Questa dimensione onirica favorisce un linguaggio simbolico intenso e coinvolgente, trasformando Madama Butterfly da semplice racconto di tradimento in un manifesto sociale.

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La vulnerabilità di Cio-Cio-San diventa metafora universale della fragilità della natura e dell’oppressione femminile, in una visione che intreccia consapevolmente tematiche socio-ambientali e di genere. L’opera del 1904 viene così rilet­ta come commento attuale e urgente, capace di parlare a un pubblico contemporaneo oltre la cerchia degli appassionati d’opera, stimolando riflessioni su sfruttamento, vulnerabilità e degrado ambientale.
La messa in scena si fonda su un uso mirato del simbolismo e di un linguaggio visivo archetipico.
Scenografia e costumi sono pensati come veicoli di significato, attingendo a esperienze umane universali e a un legame primordiale con la natura. “Ombra, bosco e natura” - concetto richiamato dalla stessa regista - non sono semplici elementi scenici, ma presenze vive che amplificano il senso del dramma. Fulcro visivo dello spettacolo è una foresta di alberi veri, elemento immediato e tangibile che rende l’ambientazione viva e immersiva. Questi alberi, quali “individui” scenici, partecipano alla narrazione con un’evoluzione dinamica: verdi e rigogliosi nel primo atto, simbolo di vitalità e speranza, si presentano secchi e aridi nei successivi, incarnando degrado e desolazione. Questo mutamento riflette in parallelo il percorso emotivo e psicologico della protagonista, trasformando la scenografia in un personaggio attivo che racconta, senza parole, la perdita di linfa vitale e di speranza. Il parallelismo tra deterioramento ambientale e sofferenza di Butterfly rafforza il legame fra diritti delle donne e tutela della natura, in un’ottica profondamente umanista.
La trasformazione scenica, lungi dall’essere un espediente estetico, agisce come potente strumento narrativo, permettendo di “leggere” la storia anche attraverso un paesaggio che evolve insieme ai sentimenti e agli eventi. In questo modo, il linguaggio visivo trasmette temi complessi in maniera diretta e potente, evitando semplificazioni didascaliche e offrendo un’esperienza teatrale ricca di stratificazioni.
Coerentemente con la visione simbolica, i costumi adottano una palette essenziale ma densa di significati. Bianco e rosso, archetipi universali, dominano la scena: Cio-Cio-San incarna questa dualità di purezza e passione, forza e sacrificio; Pinkerton indossa toni che ne suggeriscono superficialità e distacco; Sharpless e Suzuki vestono tonalità intermedie, a riflettere il loro ruolo di mediatori e testimoni. L’uso mirato del colore diventa parte integrante della drammaturgia, aggiungendo un ulteriore livello di racconto.

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L’interpretazione vocale si pone in perfetto dialogo con la regia, risultando coerente con la linea simbolica e drammatica tracciata.
Maria Agresta, nel ruolo di Cio-Cio-San, ha affrontato una serata complessa, con alcune difficoltà nella zona acuta, sia nel duetto finale del primo atto sia nella celebre aria "Un bel dì vedremo". Tuttavia, come accade con un professore di matematica che esegue correttamente nove operazioni su dieci, ma di cui tutti si soffermano sull’unica sbagliata, non mi piace ridurre la valutazione a pochi momenti critici. L’artista ha infatti dimostrato una solida preparazione vocale e una profonda intesa con il personaggio, confermandosi interprete affidabile e coinvolgente. Gli accenti sono calibrati con precisione, le intenzioni espressive chiare, e il fraseggio trova sempre un modo personale e sentito per comunicare i sentimenti di Cio-Cio-San. Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, alcune imprecisioni nelle note non devono oscurare la qualità complessiva di una lettura di grande valore, che la confermano una sublime artista.
Non posso però non segnalare con rammarico un episodio spiacevole che ha segnato la serata: come già successo nella precedente opera "La Bohème", una persona in platea - che definirei senza mezzi termini un cafone - ha urlato all’inizio del secondo atto «Maria studia!», riferendosi proprio all’interprete principale. Questi comportamenti, che oltrepassano ogni forma di rispetto verso l’artista, sono indegni e, francamente, fanno ribrezzo.
Vincenzo Costanzo interpreta Pinkerton con una vocalità seducente e spavalda, che mette in risalto la superficialità e il ruolo di “predatore inconsapevole” voluto dalla regia. La sua voce incisiva nei centri rafforza efficacemente la contrapposizione tra fascino e irresponsabilità, rendendo tangibile il disprezzo che il personaggio prova per Butterfly e per la natura. Il ruolo è stato affrontato con intensa partecipazione emotiva, anche se in alcuni passaggi acuti si percepisce a tratti una tendenza a “strafare”, con suoni talvolta troppo veementi, quasi urlati. Tuttavia, l’interprete ha saputo controbilanciare queste occasioni con momenti di grande raffinatezza vocale, come le bellissime mezze voci nel duetto finale del primo atto. Particolarmente degno di nota è stato il fraseggio accurato e la partecipazione emotiva intensa mostrati nell’aria "Addio, fiorito asil", che hanno confermato la profondità espressiva nel delineare un Pinkerton complesso e credibile.
Chiara Mogini, nei panni di Suzuki, si impone come un solido pilastro emotivo grazie a un fraseggio caldo e partecipe, che funge da ponte tra la protagonista e il mondo circostante, mettendo in rilievo la sottile dicotomia tra cura e possesso. Tuttavia, nella sua interpretazione, ho riscontrato una certa difficoltà nel percepire una netta differenziazione di registro rispetto alla protagonista. Il suo timbro, infatti, appare piuttosto chiaro, suscitandomi qualche dubbio sulla vocalità di mezzo-soprano. Pur offrendo un canto impeccabile per musicalità, intonazione e precisione, le è forse mancato quel timbro più denso e avvolgente che avrebbe potuto differenziarla maggiormente dalla protagonista. Questa lieve carenza è apparsa con particolare evidenza nel duetto dei fiori, a conclusione del secondo atto.
Luca Micheletti interpreta Sharpless con un timbro nobile e una gestione sapiente del canto, assumendo il ruolo di una voce critica e consapevole all’interno dell’opera. La sua presenza sottolinea con naturalezza la drammaturgia del vuoto e il peso delle responsabilità morali che gravano sul personaggio, conferendo profondità alla sua figura. La prova dell’artista si distingue per una musicalità raffinata e una vocalità precisa, caratterizzate da un fraseggio e una modulazione sonora attenti che riescono a trasmettere con efficacia le emozioni e i sentimenti, delineandone un ritratto umano, credibile e partecipato

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Altri ruoli, Kate Pinkerton (Francesca Paoletti), Goro (Nicola Pamio), Yamadori (Manuel Pierattelli), Zio Bonzo (Andrea Tabili), Yakusidé (Francesco Auriemma), il Commissario Imperiale (Roberto Rabasco), l’Ufficiale del Registro (Francesco Lombardi), la Madre (Maria Salvini), la Zia (Claudia Belluomini), la Cugina (Irene Celle) e Dolore (Valentin DallAmico Brambach) contribuiscono a costruire un tessuto sonoro e drammatico ricco e articolato, supportando le linee principali della narrazione con caratterizzazioni precise e funzionali.
Il coro qui assume un ruolo di spicco, agendo come una sorta di coscienza collettiva e presenza ambientale; il suo intervento non si limita a supportare vocalmente la vicenda, ma si espande in un’efficace rappresentazione corale che amplifica le atmosfere naturali e simboliche del bosco, diventando eco e specchio delle emozioni e delle tensioni dei protagonisti. La direzione del coro, affidata al M° Marco Faelli, si distingue per precisione e cura dinamica, integrandosi perfettamente nella concezione registica.
Sostituendo l’indisposto Antonino Fogliani, il M° Francesco Ivan Ciampa ha assunto la direzione dell’Orchestra del Festival Puccini con una maestria che ha superato la semplice funzione tecnica, trasformandosi in una vera e propria interpretazione drammaturgica della partitura. La sua bacchetta, sicura e versatile, ha saputo far emergere con grande precisione e sensibilità la ricchezza timbrica e la complessità dell’orchestrazione pucciniana, che in quest’opera si presenta come un tessuto sonoro stratificato, ricco di dettagli espressivi e simbolici.

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La direzione di Ciampa si è distinta per una cura maniacale delle dinamiche e delle sfumature, valorizzando ogni piano sonoro: i pianissimi sono stati trattati con un’attenzione quasi tattile, fondendosi in maniera evocativa con le ombre e i colori della scenografia, creando un’atmosfera rarefatta e sospesa. Al contrario, i momenti di forte intensità orchestrale hanno esploso una potenza dirompente, capace di scuotere lo spazio teatrale e di sottolineare con forza la tensione drammatica che attraversa la vicenda. Un elemento centrale della sua lettura è stato il bilanciamento impeccabile tra buca e palcoscenico, cruciale in un’opera come questa, in cui la sovrapposizione tra orchestra e canto rischia spesso di sovrastare le voci. Grazie a un controllo attento del fraseggio e della dinamica, ha permesso alle voci soliste, e in particolare a quella di Cio-Cio-San, di emergere nella loro piena bellezza lirica, senza mai sacrificare la ricchezza sonora dell’accompagnamento orchestrale, che anzi si è presentato come un tessuto caldo e avvolgente, di sostegno e dialogo continuo con il canto. La sua interpretazione ha dunque elevato la musica da semplice accompagnamento a “protagonista aggiuntivo” del racconto, un elemento narrativo autonomo e carico di tensione emotiva. La direzione ha saputo tessere con maestria il filo conduttore che lega i vari momenti drammatici, anticipandone le svolte e sostenendo con energia il profondo tormento interiore della protagonista, contribuendo così a una lettura complessiva coinvolgente e coerente.
La capacità del musicista avellinese di adattarsi con prontezza alle contingenze della produzione, unita a una visione interpretativa personale ma sempre rispettosa della partitura originale, si è rivelata determinante per il successo dello spettacolo. Ha dimostrato come un direttore d’orchestra, con il proprio stile e sensibilità, possa ridefinire e arricchire l’esperienza teatrale nel suo complesso, contribuendo a far risuonare in modo nuovo e appassionante un capolavoro del repertorio lirico.
Questa Madama Butterfly si è rivelata un’esperienza artistica completa, un vero e proprio invito alla consapevolezza. Come il bosco che lentamente muore e come la protagonista che si sacrifica, anche il nostro mondo reclama attenzione e cura. Un messaggio universale, racchiuso nella bellezza senza tempo di un capolavoro.
E, come sottolinea la regista nelle sue note di regia: «... Butterfly, così come la terra, non può vivere senza amore. Lei ci chiama: la sua voce è un grido silenzioso, un appello che tenta di arginare i nostri poteri sul mondo. La musica dellopera ci guida. È giunto il momento di ascoltare.»
Teatro esaurito in ogni ordine e grado con applausi per tutti.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 8 agosto 2025)

Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il soprano Maria Agresta (Cio-Cio-San)
Sotto, in sequenza: Maria Agresta e Chiara Mogini (Suzuki); Vincenzo Costanzo (F.B. Pinkerton); Francesca Paoletti (Kate Pinkerton); ancora Maria Agresta; Luca Micheletti (Sharpless); Vincenzo Costanzo con Luca Micheletti
Al centro, in sequenza: Chiara Mogini, Maria Agresta e Luca Micheletti; belle panoramiche di Giorgio Andreuccetti su scene e costumi
Sotto: la scena finale con l'harakiri di Cio-Cio-San





Pubblicato il 08 Agosto 2025
Replica nel Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago della quarta opera di Giacomo Puccini
La bohčme disegnata da Scola servizio di Simone Tomei

20250808_TorreDelLago_00_LaBoheme_CarloRaffaelli_phGiorgioAndreuccetti.JPGTORRE DEL LAGO (LU) - Tra i capolavori pucciniani La Bohème occupa un posto di privilegio per la sua capacità di fondere realismo e poesia, leggerezza giovanile e dramma struggente. Dal debutto del 1º febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino, sotto la bacchetta di un giovane Arturo Toscanini, questo dramma lirico in quattro quadri - tratto dalle Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger, con libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa - ha saputo conquistare il pubblico con una scrittura musicale cesellata nei dettagli, un’umanità vivida e una tensione drammatica che attraversa ogni pagina. La vita precaria degli artisti parigini, tra amicizie, amori e miseria, è raccontata da Puccini con un equilibrio perfetto tra comico e tragico, intimo e corale.
Il Festival Pucciniano di Torre del Lago ha riproposto, per la terza e ultima volta in stagione, l’allestimento creato da Ettore Scola nel 2014 e ripreso da Marco Scola Di Mambro. La produzione ha confermato il successo e la solidità di un'idea registica che rimane valida nella sua impostazione: un concept classico e sobrio, immerso in una Parigi ottocentesca evocata con fedeltà e poesia, filtrata attraverso la sensibilità cinematografica e intimista del grande regista. La scenografia imponente di Luciano Ricceri, con la sua struttura centrale girevole, ha caratterizzato con efficacia i diversi atti permettendo transizioni fluide, mentre i costumi eleganti di Cristiana Da Rold e le luci di Valerio Alfieri hanno contribuito a restituire un impianto visivo coerente e denso di atmosfera. La scena si è così rivelata una cornice ideale per la narrazione, mai invasiva eppure profondamente immersiva.

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Tuttavia in questa ripresa del 2025 - in occasione della recita cui ho assistito - la gestione scenica ha mostrato alcune crepe. Le interazioni tra i personaggi sono risultate spesso deboli e i momenti di vuoto scenico hanno punteggiato arie e duetti fondamentali. Il primo atto, cruciale per la definizione dei rapporti tra i protagonisti, è apparso povero di tensione emotiva, talvolta non in sintonia con quanto prescritto dal libretto. Anche il secondo atto, tradizionalmente esuberante e vivace, ha mostrato una staticità diffusa, con un coro relegato a mera funzione vocale piuttosto che drammaturgica, bloccato in un immobilismo visivamente imbarazzante, privando la scena del brio che le è proprio. Queste fragilità sembrano derivare da una preparazione disomogenea, dove i veterani del cast hanno mostrato maggior agio e padronanza dello spazio, mentre altri interpreti apparivano alla ricerca di un proprio equilibrio sulla scena. Il lavoro di Marco Scola Di Mambro, pur accurato nel mantenere intatto l'impianto originario del nonno, avrebbe forse richiesto una maggiore vivacità teatrale e un apporto più incisivo nella costruzione delle relazioni sceniche. Ne è derivata una frammentazione nella coesione attoriale, che ha penalizzato la fluidità dell'insieme. L'idea di fondo resta solida ma la sua realizzazione concreta ha risentito di una mancata omogeneità interpretativa, a conferma che anche il miglior progetto artistico ha bisogno di continuità e approfondimento in fase di esecuzione.
Sul podio il M° Gaetano Soliman - subentrato all’ultimo momento all’indisposto Piergiorgio Morandi - ha proposto una lettura lenta e poco incisiva. Fin dall’attacco i tempi dilatati hanno generato scollature evidenti tra palcoscenico e buca, rallentando il respiro teatrale. Nel corso della recita - dopo l’aria del primo atto del tenore -, si è levato dal pubblico un commento ironico e provocatorio «Maestro, un caffè!») che ha sintetizzato l’impazienza per una direzione priva di slanci dinamici. Va però sottolineato come, secondo quanto mormorato in sala, la frase sarebbe stata pronunciata da un artista lirico presente tra gli spettatori. Se così fosse, il gesto risulterebbe doppiamente censurabile, manchevole di rispetto verso i colleghi e poco professionale in un contesto che dovrebbe rimanere luogo di ascolto. Sta comunque di fatto che sfumature timbriche sono rimaste appena accennate, alcuni passaggi orchestrali sono risultati al limite dell’accettabile e l’insieme ha assunto una pesantezza plumbea, più palude sonora che fluire musicale, ben lontana dalla vitalità e dalla pulsazione interna che Puccini richiede.
Sul piano vocale lo spettacolo ha offerto un panorama diseguale, con prove di spessore accanto a interpretazioni più fragili.
Nel ruolo di Rodolfo, Carlo Raffaelli ha offerto una prestazione complessivamente sottotono. La voce si è spesso presentata spogliata di piena risonanza e spoggiata, con evidenti limiti nella zona più acuta e una musicalità poco espressiva; portamenti inopportuni e fuori stile, un fraseggio approssimativo e un controllo tecnico disomogeneo hanno indebolito l’efficacia drammatica del personaggio, lasciando complessivamente un’impressione di instabilità interpretativa.
Al contrario Maria Novella Malfatti, nei panni di Mimì, ha dimostrato una solida padronanza tecnica, con un controllo sicuro delle zone acute con eccellenti messe di voce intelligentemente calibrate. Particolarmente di pregio è stata l’esecuzione di "Donde lieta uscì", caratterizzata da una timbrica uniforme, un fraseggio delicato e una sensibilità interpretativa che ha restituito con finezza la fragile poesia della protagonista.
Come già sottolineato in precedenza, va notato come entrambi i cantanti abbiano sofferto un problema comune: la direzione d’orchestra, caratterizzata da tempi eccessivamente lenti e da un’assenza di intesa evidente con la buca. Questa impostazione ha evidenziato incertezze interpretative e ha limitato la resa emotiva del dramma. In particolare l’ultimo atto, nonostante la sua potenza drammatica intrinseca, ha sortito più l’effetto di un sedativo che di un momento di intensa partecipazione emotiva, trasformando la scena finale in una sorta di “psicofarmaco” per favorire il sonno piuttosto che un climax lirico coinvolgente.
Convincente anche Claudia Belluomini nei panni di Musetta. Il suo passato nel musical le ha conferito brio e disinvoltura scenica, senza penalizzare la qualità vocale. Ha saputo calibrare con equilibrio la vivacità pirotecnica del secondo atto e l’intensità più intima dell’ultimo quadro, restituendo un personaggio completo.
Vittorio Prato ha portato in scena un Marcello autorevole e scenicamente centrato, dotato di bella vocalità baritonale e sicura proiezione. La voce, a tratti leggermente chiara per il ruolo, è risultata comunque efficace nel modellare un personaggio credibile, ben delineato e in costante dialogo con i compagni di scena.
Italo Proferisce (Schaunard) si è distinto per suoni ben centrati, timbro argenteo e un ottimo servizio alla parola scenica. La sua presenza ha aggiunto brillantezza e ritmo alle scene d’assieme, contribuendo in modo rilevante alla compattezza dei momenti corali.
Antonio Di Matteo (Colline) ha offerto una prova di grande nobiltà espressiva, culminata in un "Vecchia zimarra" di intensa partecipazione emotiva, sorretto da un fraseggio eccellente e da un legato curato con sensibilità e profondità.
Nei ruoli di fianco, ben caratterizzati senza eccessi, Claudio Ottino (Benoît) e Matteo Mollica (Alcindoro) sono stati efficaci nel tratteggiare la coloritura comica. Piacevole e vivace l’intervento di Francesco Napoleoni (Parpignol), spiritoso e leggero.
Il Coro del Festival Pucciniano, diretto dal M° Roberto Ardigò, e il Coro delle voci bianche, guidato dal M° Viviana Apicella, hanno offerto una prova al limite della sufficienza. La resa vocale è stata corretta ma la partecipazione scenica scarsa e priva di quella energia necessaria a ravvivare i quadri corali.

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Una nota di cronaca
La serata del 7 agosto si è aperta con un evento speciale che ha arricchito il calendario del Festival Pucciniano: l’inaugurazione della mostra “…a riveder le stelle. Pietro Cascella tra scultura, scenografia e memoria del teatro”, curata da Valeria Pardini. Allestita nel Giardino del Gran Teatro all’aperto di Torre del Lago, la mostra espone alcuni degli elementi scenici disegnati da Pietro Cascella per l’allestimento della Turandot del 2004, realizzato in occasione della 50ª edizione del Festival e dei trent’anni dalla scoperta dell’esercito di terracotta.
L’iniziativa segna l’avvio del percorso celebrativo che condurrà al 2026, anno del centenario dalla prima rappresentazione di Turandot. Le sculture monumentali, testimonianza tangibile della visione scenografica di Cascella, sono oggi restituite al pubblico come installazione permanente all’aperto, in dialogo con il paesaggio del Parco della Musica e la memoria storica del Festival.
Il titolo della mostra, ispirato all’ultimo verso dell’Inferno dantesco, evoca non solo il ritorno alla luce ma anche la tensione ascensionale che ha sempre caratterizzato la poetica di Cascella, artista capace di fondere in modo unico scultura, teatro e spirito lirico. Un omaggio dunque non solo alla grande opera pucciniana, ma anche al legame indissolubile tra arte visiva e teatro musicale che ha segnato la storia del Festival di Torre del Lago.
(La recensione e la cronaca si riferiscono alla serata del 7 agosto 2025)

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Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti e Marilena Imbrescia per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il tenore Carlo Raffaelli (Rodolfo)
Sotto: i quattro bohèmiens, Carlo Raffaelli, Antonio Di Matteo (Colline), Italo Proferisce (Schaunard) e Vittorio Prato (Marcello)
Al centro: Maria Novella Malfatti (Mimì) con Carlo Raffaelli
In fondo, scena finale con, da sinistra a destra: Antonio Di Matteo, Italo Proferisce, Claudia Belluomini (Musetta), Vittorio Prato, Maria Novella Malfatti e Italo Proferisce





Pubblicato il 02 Agosto 2025
Con nuovi protagonisti la replica del capolavoro pucciniano che ha inaugurato il Festival 2025
Buratto bel debutto in Tosca servizio di Simone Tomei

20250802_TorreDelLago_00_Tosca_EleonoraBuratto_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Nel terzo fine settimana del 71° Festival Puccini di Torre del Lago, la seconda recita di Tosca ha riproposto uno degli allestimenti più attesi di questa edizione. La produzione, firmata da Alfonso Signorini in veste di regista e costumista, si è presentata con una veste visiva marcatamente simbolica, ricca di richiami estetici e storici. Tuttavia, questa densità si è spesso tradotta in scelte che, nel tentativo di modernizzare o enfatizzare, hanno finito per diluire il senso profondo del dramma.
La messinscena si sviluppa all'interno di un impianto scenografico sobrio e austero, ideato da Juan Guillermo Nova e sapientemente illuminato da Valerio Alfieri. La cornice storica - la repressione post rivoluzionaria, il ritorno dell'assolutismo borbonico, l’oppressione esercitata attraverso il potere religioso e la violenza istituzionale - è resa attraverso scenografie cupe e severe, costumi d’epoca curati dallo stesso regista e un impianto luci che accompagna con intelligenza l’evolversi drammatico. Tuttavia, alcune scelte visive scivolano nella sovrabbondanza e nel decorativismo ridondante: concubine in posa lasciva all'inizio del secondo atto, carcerieri in pantaloni adamitici e maschere di pelle da film fetish, ostensori che si illuminano teatralmente alla fine del Te Deum, il Sagrestano che recita l'Angelus facendo il segno della croce con il fiasco in mano e poi esce scolandoselo a canna: tutti elementi che sembrano pensati più per stupire che per costruire senso, con un tono caricaturale che indebolisce la tensione drammatica invece di rafforzarla. Questo approccio, che a tratti sfocia nel kitsch, dimostra come tali scelte non sempre paghino, rischiando di compromettere la serietà e la profondità dell'opera.
Anche la decisione di mostrare esplicitamente la tortura di Cavaradossi, in una scena volutamente cruda, è risultata più disturbante che efficace, apparendo gratuita e drammaturgicamente sterile e togliendo spazio alla potenza del non detto. Laddove il libretto suggerisce, la regia ha mostrato, ma senza aggiungere vera tensione o profondità. Le interazioni tra i personaggi sono apparse spesso rigide, più statiche che vissute, con una gestualità scenica poco naturale e meccanica. La regia, pur proponendosi di restituire una Tosca "maniacalmente fedele" alle intenzioni drammaturgiche del compositore, ha finito a tratti per contraddirsi, tradendo proprio quell'equilibrio tra pathos e misura che Puccini - e prima ancora Sardou - avevano saputo scolpire. L'impressione generale è stata quella di una visione estetica che privilegia la costruzione dell'immagine a discapito del respiro teatrale, stridendo con la musicalità intrinseca dell'opera.

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Il versante vocale ha offerto momenti di qualità, a partire dalla coppia protagonista: Eleonora Buratto, al suo debutto scenico in Italia nel ruolo di Floria Tosca dopo l'interpretazione in forma di concerto per l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ha dato vita a una protagonista sfaccettata e profonda. Dopo un primo atto affrontato con comprensibile prudenza - ma sempre ben centrata -, l'artista ha progressivamente preso possesso del ruolo, lasciando emergere una vocalità luminosa, controllata e incisiva. Il secondo ha rappresentato il suo punto di forza: qui la Buratto ha saputo passare con naturalezza dalla disperazione all'orgoglio, fino alla sospensione mistica di Vissi d'arte, gestita con ammirevole controllo del fiato e un'emissione sempre elegante, nonostante un tempo staccato obiettivamente troppo lento. Il pubblico ha accolto la sua interpretazione con applausi sinceri e prolungati.
Al suo fianco, Michael Fabiano ha delineato un Cavaradossi carismatico e scenicamente spavaldo, sostenuto da una voce solida, a tratti graffiante, sempre penetrante.
Nelle due arie ("Recondita armonia" - "E lucevan le stelle"), il tenore ha saputo coniugare potenza e sensibilità, dosando con cura le mezze voci e liberando con naturalezza bordate sonore di notevole impatto. Il personaggio, grazie a questa costruzione vocale e gestuale, ha acquisito spessore e autenticità.
Il carisma inquietante del bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina e strumento al lascivo talento, come ben evidenziato da Cavaradossi, era senz’altro presente nell'interpretazione di Mikołaj Zalasiński. Tuttavia, è mancato a tratti il modo di dimostrarlo con la necessaria efficacia scenica: un fare talvolta troppo marcato e meno mellifluo di quanto sarebbe stato opportuno ha penalizzato la resa del personaggio. Questa impostazione, unita a una dizione non sempre nitida e a una gestione degli acuti a tratti forzata, ha reso la sua interpretazione meno incisiva. Nonostante una buona proiezione nella zona centrale, l'insieme è apparso più rigido che minaccioso, privo di quel carisma inquietante e di quell'equilibrio sottile tra minaccia e seduzione che il ruolo richiede.

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Eccellente il contributo dei ruoli secondari: Luciano Leoni ha conferito ad Angelotti uno spessore dignitoso e partecipe, con fraseggio scolpito e timbro penetrante; Carlo Ottino, nei panni del Sagrestano, ha offerto una prova vivace e ben calibrata, stemperando i momenti brillanti dell'atto primo senza vocali eccessi caricaturali; Francesco Napoleoni è stato uno Spoletta preciso, inquietante al punto giusto, mentre Paolo Pecchioli ha dato a Sciarrone una vocalità autorevole e ben controllata; Omar Cepparolli, nel breve ruolo del Carceriere, si è distinto per naturalezza e chiarezza d'intonazione. Infine, Francesca Presepi ha offerto, nel canto di Un pastorello, una parentesi di delicata purezza.
Rispetto alla Turandot andata in scena una settimana fa, si è notata una reazione decisamente più coesa del Coro del Festival Puccini preparato e diretto dal M° Marco Faelli che, seppur meno impegnato strutturalmente, ha restituito una prova più sicura, compatta e partecipe. Di eccellente livello, come già accaduto in altre occasioni, il Coro di Voci bianche diretto dal M° Viviana Apicella, capace di donare intensità e limpidezza nei momenti più intimi della partitura.
La direzione di Giorgio Croci, pur mostrando spunti interessanti e cura nei dettagli timbrici, è parsa nel complesso trattenuta. L'orchestra si è spesso adagiata su un tappeto sonoro pesante, lento, quasi fangoso, che ha finito per smorzare l'impeto drammatico anziché sostenerlo. Il fraseggio orchestrale ha raramente trovato slancio, e l'effetto complessivo è stato quello di una lettura musicale corretta ma poco ispirata, incapace di far respirare la passione che quest'opera richiede.
Prima di concludere, ritengo opportuno chiarire la posizione del mio giudizio rispetto a quanto espresso dal direttore del nostro giornale nel merito di questa produzione. La parziale divergenza di opinioni non vuole e non deve mai essere interpretata come un affronto, né lo è mai stata in altre circostanze. Al contrario, essa nasce da una stima reciproca e dalla consapevolezza che interpretazioni, letture e sensibilità possono - legittimamente - non collimare, pur condividendo lo stesso amore per il teatro e per l'opera. È proprio nel confronto pacato e nel rispetto delle differenze che si costruisce una comunità critica autentica, dove la fiducia personale e la libertà di pensiero possono convivere senza mai mettersi in discussione.
(La recensione si riferisce alla recita di venerdì 1 agosto 2025)

Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il soprano Eleonora Buratto (Tosca)
Sotto, in sequenza: Eleonora Buratto; Michael Fabiano (Cavaradossi);
Miko
łaj Zalasiński (Scarpia); panoramica sul primo atto
Al centro, in sequenza:
Carlo Ottino (Sagrestano) con Michael Fabiano; Eleonora Buratto; ancora Eleonora Buratto con Miko
łaj Zalasiński
Sotto: la scena del Te Deum a conclusione del primo atto





Pubblicato il 20 Luglio 2025
Ripresa con successo sul palcoscenico di Torre del Lago della regia ideata dal compianto Ettore Scola
Ecco la Bohčme che ti aspetti servizio di Athos Tromboni

20250720_TorreDelLago_00_LaBoheme_PierGiorgioMorandi_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Un po' meno pubblico per La bohème rispetto alla Tosca della sera precedente, nel Gran Teatro all'aperto sul Lago di Massaciuccoli. Comunque una buona presenza (diciamo a spanne, oltre 2 mila spettatori?) per un ritorno, quello della regia "cinematografica" di Ettore Scola del 2014 ripresa da Marco Scola di Mambro. La serata, meno calda e afosa della precedente, ha visto anche qualche goccia di pioggia interrompere per due volte la rappresentazione, ma poi il cielo non ha più fatto bizze e la serata si è conclusa trionfalmente per artisti coro e orchestra.
Veniamo adesso alla recensione del secondo titolo del Festival Puccini 2025 che, oltre alla "prima" del 19 luglio, sarà replicata anche il 26 luglio e il 7 agosto: scrivemmo in sede di recensione critica, nel 2014, all'apparire di questo (allora nuovo) allestimento: «... il miracolo di Scola è scaturito dalla semplicità narrativa dei gesti, dalle scene di una Parigi bohèmienne e fantasmagorica, perché (aveva appuntato Scola nelle note di regia) "umiltà e buonsenso devono far ricordare al regista che la modernità è già tutta in quest'opera, nei sentimenti, nell'anima che l'ha resa eterna".»
Ecco allora che la soffitta è una soffitta, il quartiere latino col Caffè Momus è uno scorcio di città con l'osteria, la Barriere d'Enfer un riconoscibile posto di dogana. Non c'è da molto altro aggiungere per commentare questa ulteriore ripresa affidata alla regia di Marco Scola Di Mambro. Solo una parola: efficace.
Per completezza di informazione circa l'allestimento applauditissimo di ieri sera, aggiungiamo che le scene erano di Luciano Ricceri, i costumi di Cristiana Da Rold e le luci di Valerio Alfieri.

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C'è da far presente che il podio orchestrale affidato a Pier Giorgio Morandi ha arricchito la serata perché il direttore ha valorizzato ogni passaggio della partitura: dal brio quasi carnascialesco dei litigi ironici dei quattro bohèmiens, alla giocosità del valzer di Musetta, alle arcate sinfoniche di arie e duetti che grondano melodia, agli accordi perentori che separano il momento giocoso dei quattro amici dal momento tragico della comparsa di Mimì in fin di vita. Tutto sottolineato con gran cura dalla concertazione, rispettosa delle voci in scena e ben amalgamata dinamicamente nel rapporto canto/musica (il palcoscenico era ovviamente dotato di discreta amplificazione: non è uno scandalo, lo fanno ormai tutti, anche in teatri al chiuso...)
Il personaggio del poeta Rodolfo era affidato all'eclettico Vittorio Grigolo (lui ritornerà in scena nella replica del 26 luglio) che non si è limitato a cantare una parte che conosce bene: l'ha anche efficacemente recitata. Poi, nel momento in cui appare Mimì che bussa alla porta chiedendo che le venga riacceso "il lume", ecco le prime gocce di pioggia: una pioggerella molto sobria, da nuvoletta alla Fantozzi, là - proprio sul Gran Teatro all'aperto - mentre un cielo stellato faceva da cornice alla nuvoletta.

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Qui il primo fuori-programma: Pier Giorgio Morandi lancia un'occhiata al primo violino Domenico Pierini poi si volta verso il pubblico alzando le braccia in atteggiamento di resa e rientra nel camerino. Ed è allora che Grigolo, rimasto in scena, inventa una performance spiritosa ma altrettanto capace d'intrattenimento (il pubblico non si è mosso dai posti occupati, non c'erano ombrelli, il meteo aveva sentenziato che non sarebbe piovuto durante la serata) e lui, il tenore fa... il tenore. Si mette a riordinare la soffitta, spolvera il tavolo, mette a posto libri e attrezzi, si reca al quadro che il pittore Marcello stava dipingendo prende il pennello e "corregge" qualche particolare del presunto paesaggio sulla tela, si toglie la giacca e rimane in maniche di camicia, mette nuova legna nella stufa... insomma gigionescamente fa una parte muta e improvvisata ("questa sera si recita a soggetto" direbbe Pirandello) e strappa applausi con qualche ovazione. Poi la pioggerella smette, rientra il direttore e la recita riprende: per una decina di minuti, finché un'altra spruzzata dispettosa di pioggerella fa interrompere per la seconda volta l'esecuzione. Stavolta in scena non rimane nessuno, non era opportuno un deja-vu senza l'originalità primigenia: anche le recite a soggetto - se replicate - perdono di mordente.
Di Vittorio Grigolo, oltre al suo gigionismo, dobbiamo ammettere che piace al pubblico: piace il colore della voce, la facilità dei fiati nelle zone estreme del registro (bello il suo acuto con corona sulla "speranza" della prima aria), piace la sicurezza con cui affronta i ruoli, da coraggioso e temerario incosciente, cioè da artista che antepone la propria creatività e il proprio acume alla preoccupazione per quello che potrebbe succedere...
Ottima anche la performance di Nino Machaidze (pure lei ritornerà in scena nella replica del 26 luglio) che ha saputo dare a Mimì tutti i caratteri propri così ben delineati nella drammaturgia di Luigi Illica e nei versi di Giuseppe Giacosa. Il suo canto cattura l'attenzione, perché sa fraseggiare, sa muovere le emozioni grazie al velluto della sua emissione quando ha da essere morbida e alla controllata lucidità del canto spinto quando c'è da spingere. A Torre del Lago è stata gratificata da un successo personale spontaneo e sincero da parte del pubblico.
Bella prestazione anche del baritono Vittorio Prato nei panni di Marcello e della stupefacente Sara Blanch nel ruolo di Musetta. Bravi anche gli altri del cast, da Italo Proferisce(Schounard) ad Antonio Di Matteo (Colline), dall'onnipresente Claudio Ottino (Benoit) - ottimo comprimario per tutti i ruoli pucciniani - a Matteo Mollica (Alcindoro), da Francesco Napoleoni (Parpignol) a Francesco Auriemma (Sergente dei doganieri) a Simone Simoni (Un doganiere).
Ben preparati il coro del Festival Puccini diretto da Marco Faelli e il coro di voci bianche istruito da Viviana Apicella.
Ulteriore successo del Festival Puccini 2025 con La bohème, dopo quello registrato la sera precedente con la Tosca.
(la recensione si riferisce alla recita di sabato 19 luglio 2025)

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Crediti fotografici: Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il direttore Pier Giorgio Morandi
Sotto, in sequenza: Vittorio Grigolo (Rodolfo), Nino Machaidze (Mimì), Sara Blanch (Musetta), Vittorio Prato (Marcello): ancora Grigolo con la Machaidze
Al centro e sotto, in sequenza: Vittorio Grigolo, Antonio Di Matteo (Colline), Vittorio Prato, Italo Proferisce (Schounard), con Claudio Ottino (Benoit) nel primo atto; poi istantanee di Giorgio Andreuccetti sulla soffitta ideata da Ettore Scola e sulla piazza del Cafè Momus





Pubblicato il 16 Luglio 2025
Il Maggio Musicale Fiorentino ha affidato a Roberto Catalano l'allestimento del capolavoro di Donizetti
Un magico Elisir servizio di Simone Tomei

20250716_Fi_00_LElisirDAmore_AntonioMandrrillo_phMicheleMonastaFIRENZE - L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti è un capolavoro senza tempo che, a quasi due secoli dalla sua prima rappresentazione, continua a incantare e commuovere. Definito "melodramma giocoso", fonde mirabilmente la profondità patetica con l'arguzia dell'opera buffa italiana, creando una "commedia agrodolce" capace di strappare sorrisi e "furtive lagrime".
La genesi dell’opera racconta molto del genio creativo di Donizetti. Commissionato per il Teatro della Cannobiana di Milano, fu composto in tempi rapidissimi: sei settimane secondo i documenti, anche se una leggenda alimentata dalla vedova del librettista Felice Romani parla di soli quattordici giorni; egli sotto pressione, adattò con intelligenza il libretto de “Le Philtre” di Eugène Scribe, trasformandolo in un testo capace di coniugare leggerezza e profondità. Il debutto, nonostante le incertezze produttive e un cast che Donizetti stesso definì “inconsueto”, fu un successo travolgente e segnò una svolta decisiva nella carriera del compositore.
Dal punto di vista musicale, l’opera trascende la semplice farsa e si configura come un vero e proprio idillio teatrale. La partitura è ricca di sfumature timbriche e momenti lirici, alternando con naturalezza slanci comici e profondità espressiva. L’orchestrazione si distingue per l’uso raffinato dei fiati, i pizzicati degli archi, le marcette brillanti e i colori eleganti che accompagnano e caratterizzano le dinamiche psicologiche dei personaggi. Anche la grancassa, criticata da Hector Berlioz, viene impiegata con ironia e misura, dimostrando la maestria teatrale di Donizetti.
I personaggi incarnano con efficacia la commistione di stilemi comici e pathos romantico: Dulcamara incarna il buffo per eccellenza; Belcore porta in scena la spavalderia del soldato vanitoso, vera e propria maschera militaresca; Adina si delinea inizialmente come una giovane capricciosa, ma evolve con coerenza in una donna consapevole dei propri sentimenti. E poi c’è Nemorino, il cuore pulsante dell’opera: il suo candore, la sua ostinazione amorosa e, soprattutto, il suo canto colpiscono per sincerità emotiva.

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Il culmine si raggiunge con la celeberrima aria "Una furtiva lagrima" - accompagnata da un delicato assolo di fagotto - dove la figura dell’ingenuo innamorato si sublima, trascendendo il registro comico per approdare a un lirismo autentico, capace di restituire al personaggio un’umanità piena e commovente.
Il libretto di Romani, nella sua stesura finale, impreziosisce la fonte originale con una lingua musicale e poetica. Talvolta affiora persino un lessico di tono neoclassico, come nella costruzione metrica della romanza di Nemorino. La leggenda di Tristano e Isotta, evocata con tono leggero all’inizio dell’opera, acquista nel finale un significato più profondo, metafora dell’evoluzione interiore dei protagonisti: l’amore, da semplice creduloneria, diventa forza trasformativa.
Un esempio affascinante di una rilettura “moderna” è offerto dal nuovo allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per la stagione estiva 2025, con la regia di Roberto Catalano, le scenografie curate da Emanuele Sinisi, i costumi di Ilaria Ariemme e le luci per mano di Oscar Frosio.
Come chiarito dallo stesso Roberto Catalano nelle sue note di regia, la sua lettura de L’elisir d’amore si fonda su un’intensa chiave psicologica: l’obiettivo è quello di esplorare le origini più profonde della personalità dei personaggi, scavando nel loro vissuto emotivo e costruendo, al tempo stesso, uno spazio scenico che dialoga armoniosamente con la Cavea del Teatro del Maggio, trasformata per l’occasione in un parco urbano contemporaneo.
Nel preludio, una bambina - Adina - gioca sull’altalena. A un tratto, un coetaneo la spinge giù, in un gesto brusco e improvviso. Questa immagine, semplice ma fortemente evocativa, introduce un salto temporale e diventa il primo segnale di quella che Catalano definisce “ferita antica” - un dolore o una paura primordiale, spesso sepolta, che lascia un’impronta invisibile ma profonda. La ritroviamo poi adulta, capricciosa e razionale, ma con quelle stesse radici emotive già rivelate, mentre sfoglia il libro di Tristano e Isotta, motore simbolico dell’intera vicenda amorosa. Mostrare Adina da bambina, in quel momento fragile e destabilizzante, permette allo spettatore di cogliere con maggiore profondità l’evoluzione psicologica del personaggio.
Catalano sottolinea come queste antiche ferite - piccoli traumi, umiliazioni, paure sedimentate - possano continuare ad agire, seppur in modo sottile, sulle relazioni del presente. In quest’ottica, l’elisir venduto da Dulcamara non è più una pozione magica dal potere comico e risolutivo, ma si trasforma in un catalizzatore: uno stimolo a confrontarsi con le proprie vulnerabilità, ad affrontare quella paura di cadere che, nel preludio, era già stata rappresentata in forma concreta e metaforica.

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Insiste inoltre sull’idea che solo osando cadere, solo attraversando il rischio della delusione e dell’esposizione emotiva, si possa davvero crescere e comprendere sé stessi. E nel momento in cui si trova il coraggio di farlo, la carezza di chi ci vorrà bene diventa il gesto salvifico, capace di lenire il dolore e dissolvere la più profonda delle angosce: quella di scomparire. La regia celebra così la forza dell’amore autentico, inteso come riconoscimento e accoglienza, e restituisce all’opera una dimensione intima, vulnerabile, profondamente umana.
L’elisir d’amore continua quindi a incantare proprio per la sua duplice anima: un’opera che sa far sorridere e al tempo stesso commuovere, che alterna leggerezza e riflessione, restando saldamente ancorata alla tradizione pur parlando con voce moderna, intima, quasi disarmata.
Alla luce di questa rilettura, l’allestimento di Catalano acquista un valore ulteriore, toccando corde che, come docente, riconosco profondamente. Nel mio lavoro quotidiano, infatti, mi confronto spesso con quelle ferite non del tutto rimarginate, quei vissuti silenziosi che continuano a modellare la personalità e il comportamento dei miei studenti. È impressionante constatare come alcune dinamiche che segnano la figura di Nemorino - il discredito, l’emarginazione, l’annullamento dell’identità - trovino ancora oggi un inquietante riscontro nei contesti scolastici. Non esistono elisir né soluzioni immediate: ciò che occorre è una presa di coscienza del proprio valore, un percorso di autenticità e un’azione decisa contro le forze che spingono verso il baratro dell’isolamento.
Mi sia consentito qui di esprimere un pensiero personale: l’approccio di Catalano, così lucido nell’indagare le profondità dell’animo umano, mi ha toccato interiormente, spingendomi a riflettere sul significato profondo del mio ruolo di insegnante: essere docenti oggi non significa soltanto trasmettere saperi, ma assumere la responsabilità di accompagnare gli studenti in un cammino di crescita personale. È questo, forse, il contributo più alto che possiamo offrire: diventare figure di riferimento empatiche, capaci di illuminare il cammino verso l’autenticità e la - sì, oggi più che mai - necessaria resilienza.
Un allestimento, quello fiorentino, che ha visto al lavoro un cast molto affiatato e coeso.
Lavinia Bini ha dato vita a un'Adina vibrante e complessa, capace di muoversi con grazia dalla capricciosità iniziale a una profondità emotiva che commuove. La sua voce, agile e luminosa, si è rivelata anche dotata di un corpo vocale sempre più solido, permettendole di dominare con autorevolezza la tessitura centrale e di affrontare con intelligenza le insidiose agilità e le note più impervie. La sua presenza scenica, di eccellente piglio, ha reso pienamente credibile l'evoluzione di una donna apparentemente sicura di sé, ma in fondo fragile e desiderosa di tornare a fidarsi, conquistando il cuore del pubblico con la sua autenticità e generosità.
Antonio Mandrillo è stato un Nemorino di rara sensibilità e autenticità. La sua interpretazione è stata un crescendo emozionale, culminato nell’aria che gli è propria, eseguita con intensità e una linea di canto solida e ferma. Il fraseggio, elegante e impeccabile, unito a una salda intonazione, hanno permesso a Mandrillo di rendere la semplicità e la purezza d'animo di Nemorino senza cadere nel macchiettistico, trasformando lo "sciocco di villaggio" in un eroe romantico e vulnerabile.
Hae Kang ha offerto un Belcore dalla spavalderia contagiosa e dal carisma militaresco. La sua voce, potente, nitida e con dizione ottima, ha reso giustizia al personaggio del sergente, che pur nella sua vanità, aggiunge un tocco di vivace comicità all'intera vicenda. La sua presenza imponente e la sua interpretazione hanno bilanciato perfettamente l'aspetto buffo con una certa dignità, rendendo Belcore un antagonista quasi “simpatico” e ben delineato.
Roberto De Candia ha brillato nel ruolo del Dottor Dulcamara, un vero e proprio capolavoro di comicità e carisma scenico. La sua maestria nel "sillabato veloce" e la sua capacità di esaltare l'elisir con un'irresistibile verbosità hanno strappato risate sincere al pubblico. De Candia ha saputo infondere al personaggio una magnetica presenza, rendendo il ciarlatano non solo divertente, ma anche un elemento chiave nella dinamica emotiva dell'opera.
Aloisia de Nardis ha interpretato una Giannetta vivace e spigliata, aggiungendo un tocco di freschezza e autenticità al coro femminile. La sua performance ha contribuito a delineare l'atmosfera del "villaggio”, con una voce argentea, ben proiettata e un'ottima presenza scenica.
La concertazione del M° Alessandro Bonato si è distinta per equilibrio, eleganza e consapevolezza stilistica. La sua direzione, sobria e attenta, ha valorizzato la cantabilità dell’opera e mantenuto sempre un dialogo musicale corretto con i cantanti. Particolarmente riuscita è risultata la gestione dei momenti lirici più intimi, come nell’accompagnamento della romanza di Nemorino, dove l’orchestra ha saputo farsi leggera e poetica. L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ha risposto con coesione e sensibilità, offrendo un suono compatto e sfumato. Ottima anche la prova del Coro, preparato dal M° Lorenzo Fratini, preciso e partecipe, sia musicalmente che teatralmente.
Un plauso speciale merita anche l'impegno dei figuranti speciali - Martina Auddino, Mauro Barbiero, Francesco Baraldi, Elena Barsotti, Giampaolo Gobbi, Eliseo Pantone, Sonia Remorini - e dei bambini - Gherardo Attori, Celeste Castellini, Duccio Leoni, Violante Ginevra Orso.
Tutti hanno contribuito con lodevole impegno e un'ottima riuscita scenica a rendere ancora più vivida e coinvolgente l'atmosfera, arricchendo ogni scena con la loro presenza e la loro espressività.
La serata, meno afosa del solito e dominata da una piacevole brezza, ha riscosso il pieno consenso di un pubblico numeroso, ulteriormente allietato dall'omaggio della ditta Sammontana, che ha offerto gelati a tutti i presenti.
(La recensione si riferisce alla recita del 14 luglio 2025)

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Crediti fotografici: Michele Monasta per il Maggio Musicale Fiorentino - Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il tenore Antonio Mandrillo (Nemorino)
Sotto, in sequenza: Lavinia Bini (Adina), Antonio Mandrillo, Hae Kang (Belcore), Roberto De Candia (Dulcamara); Lavinia Bini e Antonio Mandrillo nel I° Atto
Al centro, in sequenza: Hae Kang e Lavinia Bini; Hae Kang Lavinia Bini e Antonio Mandrillo; Antonio Mandrillo e Roberto De Candia; ancora Antonio Mandrillo con la bottiglia dell'elisir
In fondo, in sequenza: Aloisia de Nardis (Giannetta) con Lavinia Bini e Antonio Mandrillo; Aloisia de Nardis con Hae Kang; Roberto De Candia; Antonio Mandrillo con Aloisia de Nardis e il coro






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Parliamone
Otello l'incoerenza č di scena
intervento di Simone Tomei FREE

20251007_Pr_00_Otello_Parliamone_YusifEyvazov_phRobertoRicciPARMA - Esiste un patto segreto, antico e nobilissimo, tra il palcoscenico e la platea. È un atto di fede: lo spettatore si affida alla visione degli artisti, promettendo in cambio sospensione dell'incredulità e apertura del cuore. Aprire il sipario sull' Otello al Teatro Regio di Parma, nel cuore del Festival Verdi 2025, avrebbe dovuto significare rinnovare questo patto, immergendosi nel gorgo della più compiuta tragedia shakespeariana in musica. E, in effetti, la partitura di Verdi ha mantenuto fede al suo compito: un fiume in piena, potente e inesorabile, che dal golfo mistico ha continuato a scorrere, travolgente e commovente. Il problema, ahimè, è sorto quando ho alzato gli occhi perché ciò che si vedeva apparteneva a un altro pianeta drammaturgico, a un universo visivo che con il fiume verdiano dialogava poco o punto.
Le note di regia di Federico Tiezzi, un denso manifesto intriso di Freud, Welles, Dostoevskij e Pasolini, promettevano una discesa negli inferi della psiche.
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VideoCopertina
La Euyo prende residenza a Ferrara e Roma

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Jazz Pop Rock Etno
Ferrara in Jazz primo week-end
servizio di Athos Tromboni FREE

20251006_Fe_00_FerraraInJazz_PietroBittoloBonFERRARA - Il 3 ottobre scorso il Jazz Club Ferrara ha dato avvio alla prima parte dei concerti della nuova stagione "Ferrara in Jazz" che si svolgerà ogni fine settimana (il venerdì, il sabato e la domenica) fino al 21 dicembre 2025. L'appuntamento d'apertura, nel Torrione San Giovanni, ha visto in pedana il sassofonista Piero Bittolo Bon con Alessandro
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Eventi
Partenza con le canzoni di Guccini
servizio di Francesco Franchella FREE

20251004_Fe_00_GruppoDei10_FrancescoGucciniFERRARA - Alla volta dei primi freddi (o freschi) settembrini, il mondo si divide: chi si dà già ai pranzi autunnali vestendosi come se fosse il 1° di gennaio; chi ogni weekend, nostalgico del caldo, chiede al coniuge di fare “l’ultima” gita al mare; chi guarda in continuazione le mail, per sapere quando inizieranno le prime serate della stagione
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Personaggi
Porto in scena le parole che non scrisse
servizio di Ludovica Zambelli FREE

20250927_Fe_00_IntervistaAlessioBoni_OmaggioAPucciniDiEliosLippiFERRARA - Al Teatro Abbado andrà in scena lo spettacolo Concerto a due per Puccini, con Alessio Boni e Alessandro Quarta, regia di Boni stesso e Francesco Niccolini ("prima" lunedì 29 settembre, replica sabato 30 settembre 2025 ore 20,30); è uno spettacolo con  parole e musica, che si incontrano per restituire la complessità di un compositore che
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Echi dal Territorio
Ferrara in Jazz si parte!
redatto da Athos Tromboni FREE

20250926_Fe_00_FerraraInJazz2025-2026_FedericoDAnneoFERRARA - È giunta alla 27.esima edizione la stagione del Jazz Club Ferrara, presso il Torrione San Giovanni di via Rampari di Belfiore incrocio di via Porta Mare: a partire da venerdì 3 ottobre 2025, proprio il Torrione riapre le porte di Ferrara in Jazz con il programma della prima parte di stagione (ottobre-dicembre 2025), dove sono in calendario
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Classica
Saccon-Genot e fanno tre
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20250925_Fe_00_ConcertoSacconGenotPerLuigiCostatoFERRARA - Il Comitato per i Grandi Maestri fondato e presieduto da Gianluca La Villa ha organizzato un concerto cameristico a Palazzo Roverella, sede del Circolo Negozianti di Ferrara, in memoria del prof. Luigi Costato: protagonisti del concerto sono stati due musicisti già noti e molto apprezzati nella città estense, il violinista Christian Joseph
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Ballo and Bello
Ecco le Stanze della Danza
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Una perla i Pescatori di perle
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Pagina Aperta
Un luogo dove il cuore rimane giovane
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Echi dal Territorio
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Vocale
Concerto degli allievi di Magiera
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20250917_Fe_00_ConcertoStagioneLiricaEDanza2025-2026_LeoneMagieraFERRARA - La presentazione della Stagione di Opera & Danza 2025/2026 del Teatro Comunale "Claudio Abbado" - avvenuta nella mattinata di martedì 16 settembre - ha avuto il suo epilogo alle ore 20,00 con un concerto lirico nel Ridotto del teatro, dove si sono esibiti i giovani allievi del corso di perfezionamento tenuto dal maestro Leone Magiera
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Eventi
Ferrara nuova stagione d'Opera e Danza
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20250916_Fe_00_StagioneLiricaEDanza2025-2026_StefanoRanzani_phAlfredoTabocchiniFERRARA - Un "Concerto a due per Puccini" e dodici spettacoli di opera, danza, musical, sono la dote della Stagione d'Opera & Danza 2025/2026 del Teatro Comunale "Claudio Abbado" che si aprirà il prossimo 29 settembre per concludersi il 24 maggio del prossimo anno.

La conferenza-stampa
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Opera dal Centro-Nord
L'amico Fritz fra sostenitori e detrattori
servizio di Simone Tomei FREE

20250915_Li_00_LAmicoFritz_BengisuYamanKoyuncuLIVORNO - Dopo l’esplosione dirompente del successo di Cavalleria rusticana (1890), Pietro Mascagni si trovò davanti a una sfida tutt’altro che semplice: dimostrare di non essere l’autore “di un’opera sola”, consacrato dalla fortuna di un libretto tratto da Verga. Ed è in questo clima che nacque L’amico Fritz, andato in scena per la prima volta al
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Personaggi
Cantami o Diva gli intrighi...
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Echi dal Territorio
Frescobaldi Day a Palazzo Schifanoia
FREE

20250914_Fe_00_FrescobaldiDay_MarinaDeLisoFERRARA - Marina De Liso, mezzosoprano e docente di musica antica nel Conservatorio "Girolamo Frescobaldi" nonché coordinatrice del "Concentus Musicus Fe' Antica"  ha presentato ieri nella bella e confortevole sala pubblica di Palazzo Schifanoia il primo concerto della stagione 2025/26 di Ferrara Musica: quest'anno l'associazione concertistica
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Vocale
Dalla romanza alla canzone napoletana
servizio di Simone Tomei FREE

20250913_00_PonteAMoriano_Concerto_AntonioCiprianiPONTE A MORIANO (LU) - La serata del 12 settembre 2025 al Teatro Idelfonso Nieri di Ponte a Moriano si è chiusa l’edizione di "Un Teatro Sempre Aperto", confermando ancora una volta la qualità e la coerenza di una rassegna che, pur in assenza della storica sala cittadina del Teatro del Giglio, ha saputo mantenere viva la propria presenza sul
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Opera dall Estero
Una Traviata trasposta nel Novecento
servizio di Ramón Jacques FREE

20250910_00_Bogota_LaTraviata_JuliaMuzychenko_phJuanDiegoCastilloBOGOTÀ (Colombia) - 24 agosto 2025, Teatro Mayor Julio Mario Santo Domingo.
In occasione della quindicesima stagione del Teatro Mayor Julio Mario Santo Domingo, attualmente il palcoscenico più importante della Colombia, si è tenuta una nuova rappresentazione di La traviata. L’opera,
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Opera dal Centro-Nord
Ode a Leopardi e Medium prova generale
servizio di Simone Tomei FREE

20250901_Li_00_OdeALeopardi_Mascagni Festival2025LIVORNO – In un Mascagni Festival sempre più attento al dialogo fra memoria storica e ricerca espressiva, la serata del dittico Ode a Leopardi di Pietro Mascagni e The Medium di Gian Carlo Menotti, presentata agli Hangar Creativi, ha offerto un accostamento insolito ma fecondo tra due poetiche distanti eppure unite dalla tensione verso il mistero
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Eventi
ROF bilancio 2025 e programma 2026
redatto da Athos Tromboni FREE

20250901_Ps_00_ROF-Bilancio2025Programma2026PESARO - A Pesaro si dichiarano soddisfatti per i risultati non solo artistici del Rossini Opera Festival 2025. Ecco qui sotto, in sintesi, la valutazioni che illustrano sommariamente gli obiettivi raggiunti e anche le anticipazioni per l'edizione 2026.

I numeri che contano
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Opera dal Centro-Nord
Manon Lescaut fra le sculture blu
servizio di Simone Tomei FREE

20250831_TorreDelLago_00_ManonLescaut_MariaJoseSiri_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) - Il 71° Festival Puccini si avvia alla conclusione con l’ultimo debutto operistico della stagione in una serata di fine agosto molto suggestiva: Manon Lescaut è tornata al Gran Teatro sulle sponde del Massaciuccoli nella produzione di Igor Mitoraj del 2003, ripresa con cura nella regia di Daniele De Plano, scene di Luca Pizzi
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Classica
SummerFest grande musica da camera
servizio di Ramón Jacques FREE

20250831_00_SanDiego_SummerFest2025_ReneFleming_phKenJacquesSAN DIEGO (USA) - SummerFest 2025, The Baker-Baum Concert Hall. Il festival di musica da camera SummerFest, che si tiene ogni estate a San Diego, California dal 1986 ed è organizzato dall'associazione musicale locale La Jolla Musical Society (LJMS), è diventato un appuntamento imperdibile per gli amanti della musica cameristica (nel sud
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Vocale
Giovane Scuola al Mascagni Festival
servizio di Simone Tomei FREE

20250929_Li_00_ GalaVerismo_FestivalMascagni_PietroMascagniLIVORNO - Il Mascagni Festival 2025, nell’anno dell’ottantesimo della scomparsa del compositore, si conferma laboratorio vivo di idee più che semplice contenitore di eventi: una geografia del suono disseminata tra Livorno, la provincia e luoghi simbolici d’Italia e del mondo, capace di intrecciare concerti, opere, letture sceniche e creazioni originali
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Opera dal Centro-Nord
Sepe una delicata Butterfly
servizio di Nicola Barsanti FREE

20250825_00_TorreDelLago_MadamaButterfly_AntoninoFogliani_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) – Diamo conto ai nostri lettori della replica del quarto titolo in cartellone nell’ambito del 71° Festival Puccini: Madama Butterfly. Per regia, scene e costumi rimandiamo alla recensione della prima rappresentazione che potete consultare qui .
La principale differenza rispetto al debutto riguarda il ruolo
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Eventi
Turandot e le altre
redatto da Athos Tromboni FREE

20250824_TorreDelLago_00_FestivalPuccini2026_TurandotiELeAltre_DisegnoDiEliosLippiTORRE DEL LAGO (LU) -  Questa volta si parte in largo anticipo: è ormai definitivo - infatti - il programma della 72.esima edizione del Festival Puccini di Torre del Lago (Viareggio) che si svolgerà nel Gran Teatro all’aperto sul Lago di Massaciuccoli nell’estate 2026 e che era stato anticipato nella conferenza stampa dello scorso maggio dal presidente
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Opera dal Centro-Nord
Alina Tkachuk la rivelazione
servizio di Nicola Barsanti FREE

202516_TorreDelLago_00_Turandot_AlinTkachukTORRE DEL LAGO (LU) - La rappresentazione di Turandot al Gran Teatro Giacomo Puccini, nell’ambito del 71° Festival Puccini, propone una lettura scenica affidata alla regia di Alfonso Signorini, la cui impronta visiva rimanda all’articolo della prima rappresentazione che potete trovare qui. L’allestimento conferma la forza visiva e simbolica dell’opera, ma
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Opera dal Nord-Est
Rigoletto, Nabucco e Aida
servizio di Nicola Barsanti FREE

20250814_Vr_00_Rigoletto_phEnneviFotoVERONA - L’anfiteatro Arena, con i suoi duemila anni di storia e le gradinate che custodiscono memoria e suggestione, si conferma il più imponente palcoscenico a cielo aperto dedicato all’opera lirica. Ogni estate l’antico anfiteatro romano si trasforma in una cassa armonica naturale, dove le note dei grandi compositori si fondono con l’energia collettiva
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Opera dal Centro-Nord
Butterfly e la simbologia degli alberi
servizio di Simone Tomei FREE

20250809_TorreDelLago_00_MadamaButterfly_MariaAgresta_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO (LU) - Madama Butterfly di Giacomo Puccini è il quarto titolo a susseguirsi sul palcoscenico del Festival Puccini di quest’anno. Per la sua 71ª edizione, la rassegna ha affidato la regia a Manu Lalli, che propone una lettura capace di andare oltre la mera rappresentazione scenica, trasformando il linguaggio visivo e simbolico in un elemento
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Opera dal Centro-Nord
La bohčme disegnata da Scola
servizio di Simone Tomei FREE

20250808_TorreDelLago_00_LaBoheme_CarloRaffaelli_phGiorgioAndreuccetti.JPGTORRE DEL LAGO (LU) - Tra i capolavori pucciniani La Bohème occupa un posto di privilegio per la sua capacità di fondere realismo e poesia, leggerezza giovanile e dramma struggente. Dal debutto del 1º febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino, sotto la bacchetta di un giovane Arturo Toscanini, questo dramma lirico in quattro quadri - tratto dalle
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Jazz Pop Rock Etno
Ferrara Film Orchestra e la bacchetta di Ambra
servizio di Athos Tromboni FREE

20250803_00_GiardinoPerTutti_FerraraFilmOrchestra_CristinaColettiFERRARA - La prima serata della rassegna Giardino per tutti organizzata ai piedi del grattacielo dal Comune di Ferrara con la collaborazione del Teatro Comunale "Claudio Abbado", dentro il Parco Coletta, ha fatto l'en-plein. Era in pedana la Ferrara Film Orchestra capitanata dalla bacchetta di Ambra Bianchi
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Opera dal Centro-Nord
Buratto bel debutto in Tosca
servizio di Simone Tomei FREE

20250802_TorreDelLago_00_Tosca_EleonoraBuratto_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Nel terzo fine settimana del 71° Festival Puccini di Torre del Lago, la seconda recita di Tosca ha riproposto uno degli allestimenti più attesi di questa edizione. La produzione, firmata da Alfonso Signorini in veste di regista e costumista, si è presentata con una veste visiva marcatamente simbolica, ricca di richiami
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Opera dal Nord-Est
Nabucco Carmen La traviata
servizio di Angela Bosetto FREE

20250731_Vr_00_Nabucco_StefanoPodaVERONA – Anna Netrebko, Anita Rachvelishvili e Rosa Feola, ovvero Abigaille, Carmen e Violetta Valéry. Sono loro le tre grazie musicali che, dal 17 al 19 luglio 2025, hanno acceso l’Arena, rendendo ciascuna rappresentazione meritevole di grande interesse in virtù della propria peculiarità. Per il soprano russo si trattava del debutto italiano come figlia
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Jazz Pop Rock Etno
Verdi e il jazz un dialogo
servizio di Simone Tomei FREE

20250727_Fabbiano_00_ValtidoneFestival_AlessandroBertozziFABBIANO, Borgonovo Val Tidone (PC) - Nella serata di sabato 26 luglio 2025, un angolo a me ancora misconosciuto della Val Tidone, la suggestiva piazzetta di Fabbiano, frazione di Borgonovo Val Tidone, si è trasformato in un crocevia di sublime audacia musicale. Il Valtidone Festival, giunto alla sua 27ª edizione e promosso dalla
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Opera dal Centro-Nord
Ecco la Bohčme che ti aspetti
servizio di Athos Tromboni FREE

20250720_TorreDelLago_00_LaBoheme_PierGiorgioMorandi_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Un po' meno pubblico per La bohème rispetto alla Tosca della sera precedente, nel Gran Teatro all'aperto sul Lago di Massaciuccoli. Comunque una buona presenza (diciamo a spanne, oltre 2 mila spettatori?) per un ritorno, quello della regia "cinematografica" di Ettore Scola del 2014 ripresa da
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Opera dal Centro-Nord
Un magico Elisir
servizio di Simone Tomei FREE

20250716_Fi_00_LElisirDAmore_AntonioMandrrillo_phMicheleMonastaFIRENZE - L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti è un capolavoro senza tempo che, a quasi due secoli dalla sua prima rappresentazione, continua a incantare e commuovere. Definito "melodramma giocoso", fonde mirabilmente la profondità patetica con l'arguzia dell'opera buffa italiana, creando una "commedia agrodolce" capace di strappare
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Echi dal Territorio
79 anni di emozioni
redatto da Athos Tromboni FREE

20250715_Spoleto_00_Stagione2025_AntonioAgostini_phRomboniDalleLucheSPOLETO (PG) - Partirà il 7 agosto 2025 per concludersi il 24 settembre la nuova Stagione lirica del Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" giunta al lodevole traguardo della 79.ma edizione. Gli spettacoli, oltre che nella città spoletina, andranno in scena anche nei principali teatri dell'Umbria: «79 anni di emozioni, una stagione da vivere!» è lo slogan
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Jazz Pop Rock Etno
La notte degli Oscar
servizio di Athos Tromboni FREE

20250711_Vigarano_00_GruppoDei10_DadoMoroniVIGARANO MAINARDA (FE) - La "Notte degli Oscar" del Gruppo dei 10 idea uscita dalla testa di Alessandro Mistri (così come Pallade Atena uscì dalla testa di Zeus, ci racconta il poeta greco Esiodo) ha visto una nutrita partecipazione di pubblico allo Spirito di Vigarano Mainarda.
Non poteva essere altrimenti
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