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Vero cast stellare a Orange per la messa in scena dell'ultima opera di Gioachino Rossini

La vitale e pulsante energia del Tell

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 13 Luglio 2019

190713_Orange_00_GuillaumeTell_NicolaAlaimo_phAbadieBrunoORANGE (Francia) - «Io reputo il Guglielmo Tell la nostra Divina Commedia, una vera epopea; né so comprendere come ognuno che ama e coltiva la musica non si prostri innanzi a questa più che sublime, divina creazione, a questo miracolo dell’arte»: così il compositore siciliano Vincenzo Bellini salutava la consacrazione definitiva dell’illustre collega pesarese Gioachino Rossini grazie al suo ultimo capolavoro: il Guillaume Tell. Capite dunque perché non mi abbiano certo spaventato gli oltre settecento chilometri che separano il mio ovile lucchese dall’antico Teatro di Orange (la piccola cittadina francese situata a nord di Avignone): un piccolo prezzo per poter assistere a un’opera così emozionante nella magica cornice del 150° Festival Chorégies d’Orange. Ma prima della cronaca musicale della serata del 12 luglio 2019, una piccola contestualizzazione storica.
Nel 1824 Rossini si trasferì a Parigi dove assunse la carica di Directeur de la Musique et de la Scène du Théâtre Royal Italien, insieme all’obbligo di comporre nuove opere per l’Opéra Français. La prima, ma anche l’unica, fu proprio il Guillaume Tell, che andò in scena il 3 agosto 1829 dopo una serie di peripezie, aggiustamenti e ritardi. La critica fu laudativa nei suoi confronti e addirittura Le Globe, da sempre ostile al compositore di Pesaro, sostenne che “con quest’opera era iniziata una nuova era per la musica drammatica”. Nel 1834 Hector Berlioz, non certo imparziale verso Rossini e l’opera italiana, scrisse: “La partitura era il frutto di una seria riflessione, era ponderata per ogni verso ed eseguita con grande precisione dall'inizio alla fine”. Le vicissitudini di Rossini fecero sì che il Guillaume Tell, invece di aprirgli una nuova carriera a Parigi, finì per essere il suo canto del cigno operistico.
La caratteristica più affascinante del Tell è tuttavia il modo fantasioso in cui il compositore ha affrontato la creazione di un lavoro per l’Opéra Français, senza abbandonare le proprie radici italiane. Sebbene certi elementi siano più “italiani” ed altri più “francesi”, la cosa straordinaria è la loro compenetrazione. Meglio che in qualsiasi altro lavoro, Rossini integra qui il lirismo del bel canto e le forme raffinate del melodramma italiano con caratteristiche tipiche dell’opera d’oltralpe quali l’immediatezza del declamato e lo splendore della messa in scena (basti pensare ai lunghi interventi del coro e del balletto). La grandiosa struttura, infine, si sviluppa su un sistema di motivi musicali derivati da melodie popolari svizzere, note come Ranz des Vaches, che appaiono nella loro forma primigenia durante i festeggiamenti del primo atto, per poi venire trasformate in una straordinaria varietà di forme.
Circa l’evoluzione del protagonista, nel 1971 il musicologo e direttore d’orchestra Bruno Cagli scriveva (in Guida all’opera, Mondadori) come, rispetto alla tragedia originale di Friedrich Schiller, il personaggio di Guglielmo apparisse troppo sfocato, citando a sua volta il musicologo Giuseppe Radiciotti: «Una delle modificazioni di capitale importanza consiste nell’aver tolto al protagonista quel fare schietto e semplice che ha nell'originale, per prestargli un atteggiamento sostenuto, teatrale, quasi di posa. Era forse utile, dal punto di vista drammatico, correggere la storia per mezzo della leggenda, presentando subito Guglielmo su la scena, invece che alla fine del dramma, e facendolo capo del convegno dei Rütli in sostituzione di Stauffacher, che nell’originale è l'anima del dramma: ma non era punto necessario togliergli anche il carattere di dolcezza e di bonomia che ha, tanto nella storia quanto nel lavoro dello Schiller, per farne una figura dall’aria tetra e fatale». Nell’introduzione italiana alla tragedia di Friedrich Schiller, Giuliano Baioni spiega inoltre che «il libretto utilizzato da Rossini è pieno di inviti alla vendetta più sanguinosa, mentre il Tell schilleriano raccomanda fin troppo la virtù e la moderazione e non rappresenta affatto l'esaltazione del tirannicidio, ma piuttosto la sua sofferta giustificazione. In questa distanza c'è tutta la problematica politica e morale di Schiller. Nell'opera di Rossini vive ancora il Tell giacobino, la figura dell'agitatore capopopolo. Nel dramma di Schiller, invece, l'eroe è buono solo nella misura in cui non è politico e il suo atto è giustificato solo in quanto non è compiuto per motivi di parte. Per questo Schiller, contro tutte le sue fonti, non fa partecipare Tell al giuramento del Rütli. Il suo eroe non deve essere un congiurato, non deve ricordare in nessun modo il Bruto giacobino

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Dopo questo excursus, veniamo alla rappresentazione vera e propria, svoltasi sotto un cielo stellato e benedetta da una temperatura davvero gradevole.
Lo scenografo Eric Chevalier ha voluto valorizzare al massimo proprio il contesto architettonico romano (uno dei meglio conservati al mondo) rendendo la pietra elemento essenziale. Le proiezioni, sapientemente integrate con il colore del grande muro, hanno preso vita già dalla sinfonia iniziale, trasformando la forma geografica della Svizzera nella grande vallata dal clima festante in cui si apre il capolavoro rossiniano. Sono bastati un aratro e una striscia di terra sul bordo prospiciente la buca orchestrale a rendere alla perfezione il clima bucolico, mentre le visioni proiettate sul muro accompagnavano amabilmente ogni momento dell’opera.
I costumi di Françoise Raybaud, quasi onomatopeici per colori (tenui e morbidi) e forme, risultavano perfettamente intonati al climax essenziale della mise en scène.
Laurent Castaingt ha giocato magistralmente con le luci, riuscendo ad infondere con il calore dei colori delle forti emozioni e riuscendo a ben sottolineare i vari stati d’animo che si susseguivano.
Questi ingredienti si sono fusi nelle mani e nella mente del regista Jean-Louis Grinda, il quale ha offerto un prodotto estremamente fluido e godibile. Nel suo lavoro minimalista ha lasciato che la musica, le parole e i sentimenti guidassero gli interpreti, I quali - amalgamati dalle note orchestrali - non hanno fatto altro che seguirne lo scorrere per arrivare al gran finale. Per dirla come Giovanni Carli Ballola (Rossini. L’uomo, la musica), «Musica per la quale sembra di prammatica la qualifica di monumentale, quando invece di vitale, pulsante energia si tratta, come di un fiume giunto alla foce».

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E dopo il coro conclusivo sembra che il Cigno di Pesaro abbia raggiunto davvero un punto di contatto con l’infinito: un addio alla vita compositiva, senza però far mancare quel senso di libertà, speranza e rinascita che il nuovo giorno porta sempre con sé. A Orange tale sentimento è stato incarnato da una donzelletta in abiti campagnoli, che spargeva a terra alcuni semi, in allusione al testo «Liberté, redescends des cieux / Et que ton règne recommence!» Solo che il regno di Rossini non è mai ricominciato perché non è mai finito, anzi ogni volta che queste note risuonano in un teatro sembra quasi di percepirne la presenza sorniona, ma anche compiaciuta di aver lasciato al mondo un testamento musicale capace di trasportare l’animo umano in zone ancora inesplorate.
Sul fronte musicale ci siamo trovati davanti a un cast di altissimo livello.
Il protagonista Nicola Alaimo (Guillaume Tell) si è imposto sulla scena riuscendo (sia con sicura presenza attoriale, sia con una vocalità dotata un di bel timbro morbido e vellutato tanto nella zona grave quanto in quella più acuta) a trasmettere lo stato d’animo di un uomo travagliato per le angherie subite dal suo popolo, ma al tempo stesso combattivo. Sois immobile è stata una pagina in cui ogni nota ha trovato il proprio senso emotivo più profondo, raccogliendo tutti i colori e le sensazioni che il violoncello suggeriva con le struggenti note dell’accompagnamento.
Nei panni di Arnold Melchtal, il tenore spagnolo Celso Albelo ha dato un'impronta forte al personaggio, dimostrando di saper gestire con grande maestria le dinamiche nell’emissione del suono e conferendo accenti peculiari e significativi nell'interpretazione, sempre a stretto contatto con i vari e mutevoli stati d’animo che lo fanno evolvere da passionale innamorato di Mathilde, a tenace difensore delle terre elvetiche e vindice del padre. La sua pagina più lirica nel quarto atto (Asile héreditaire) è stata un momento di Teatro davvero corroborante, nel quale lo spettatore si è sentito trascinare dal fascino sublime di una voce che trovava in ogni nota un gusto belcantista fino al culmine dell’aria, in cui il forte pathos ha portato alla esecuzione di un lunghissimo e vigoroso acuto, che gli è valso l’ovazione spontanea del pubblico.
Mathilde, principessa degli Asburgo, ha trovato corpo e anima nel soprano Annick Massis. Che dire di questa interprete? Oltre alla bravura e alla sicurezza vocale, non possiamo non notarne l’eleganza innata sul palcoscenico. Ogni gesto e ogni passo sono stati segnati da un fascino senza tempo: un piacere per l’occhio poterla ammirare nel suo incedere signorile. Vocalmente si è distinta per nitidezza, luminosità e morbidezza, senza risparmiarsi nel restituire un canto ricco di variazioni nelle riprese. Proprio per la sua grande capacità di unire le due arti – canora e recitativa – è riuscita  a gestire perfettamente il personaggio nonostante l’assenza di supporti scenografici, conferendogli una caratterizzazione molto forte. Sempre sul fronte vocale, ha dimostrato di possedere una notevole gamma di suoni e colori, con grande agilità e sicurezza negli “svolazzanti” acuti abbinate alla profonda potenza delle note più gravi. Nell’aria con cui si è presentata al pubblico (Sombre forêt, désert triste et sauvage, eseguita dopo essere scesa da un cavallo bianco) ha giocato intelligentemente con la dinamicità del suono, conferendo una connotazione e un significato profondi.
In questa produzione spiccavano inoltre i due bassi Nicolas Courjal, distintosi per la voce imponente e assai adatta al carattere di Gesler, nemico di Tell, e Nicolas Cavallier (Walter Fürst), emerso in particolare nel lungo terzetto del secondo atto.
Completavano il cast Nora Gubisch (Hedwige), Jodie Devos (ottima nel ruolo en travesti di Jemmy, figlio di Guillaume), Philippe Kahn (Melcthal, padre di Arnold), Philippe Do (Rodolphe), Julien Véronèse (Leuthold) e Cyrille Dubois (un meraviglioso Roudi). Tutti hanno dato prova di grande professionalità alle prese con una partitura spesso impervia dal punto di vista vocale e interpretativo.
All’appello, però, manca ancora un personaggio che, per questa composizione rossiniana, definirei forse il più presente e il più travolgente: il Coro, anzi i Cori, dato che all’allestimento hanno partecipato sia quello dell’Opéra de Monte-Carlo, sia quello del Théâtre du Capitol de Toulouse, preparati rispettivamente dai Maestri Stefano Visconti e Alfonso Caiani.

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L’ensemble ha accompagnando trasversalmente tutta l’opera e dando una connotazione ben definita al finale di ogni atto: il primo con il tipico “crescendo rossiniano”, il secondo con la veemenza del coro maschile impegnato nel giuramento, il terzo concertato con alcuni dei protagonisti solisti e, infine, il famoso finale (Tout change et grandit en ces lieux) in cui la parola “Liberté” (che conduce il brano sulla tonalità di Do maggiore) è arrivata in platea come una ventata di emozione fortissima, complici le magnifiche luci e la già citata presenza della contadinella.
L’orchestra dell’Opéra de Monte-Carlo, sotto la direzione del Maestro Gianluca Capuano, ha completato il meraviglioso quadro operistico, anche se, in questo caso ho avuto la sensazione che la mano direttoriale non sia stata proprio accorta come mi sarei aspettato. Non sono mancati alcuni momenti di incertezza nel gesto, né altri in cui i tempi parevano quasi demoniaci. Il finale del duetto Oui, vous l’arrachez à mon âme è stato piuttosto difficile da ascoltare proprio perché pareva scandito da un’eccitazione eccessiva fino al punto di far perdere il senso di quanto stava accadendo. Non è stato premuroso nemmeno con il tenore nella sua grande aria del quarto atto e non sono mancati altri frangenti in cui l’anarchia della bacchetta è andata oltre quello che un direttore può permettersi. Dal punto di vista delle dinamiche sonore è andata meglio, ma sinceramente in un quadro così perfetto mi sarei aspettato qualcosa di più. Non me ne vogliate: forse la mia è solo pignoleria, ma, considerando questo capolavoro il testamento spirituale di Gioachino Rossini, vorrei trovarci se non la perfezione, almeno lo slancio in tale direzione.
Rimane da dire che il pubblico ha riservato ovazioni a tutti sia durante l’esecuzione, sia alla fine, tributando applausi e “Bravo!” come se non ci fosse un domani.

Crediti fotografici: Abadie Bruno e Philippe Gromelle per il Festival Chorégies d’Orange
Nella miniatura in alto: il bass-baritono Nicola Alaimo (Guillaume Tell)
Sotto: Nicola Alaimo con Jodie Devos (Jemmy)
Al centro, in sequenza: ancora Alaimo; Celso Albelo (Arnold); e Annick Massis (Mathilde)
Sotto, in sequenza: una bella foto panoramica di Philippe Gromelle; Nicolas Courjal (Gesler) con Jodie Devos (Jemmy); ancora Jodie Devos con Nicola Alaimo; scena della vittoria di Guglielmo Tell
In fondo: un’altra foto panoramica di Philippe Gromelle






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