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Il pubblico livornese non era numeroso alla fiacca messa in scena del Donizetti buffo

Deserto sull' Elisir

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 30 Ottobre 2018

181030_Li_00_ElisirDAmore_TatsuyaTakahashi_phAugustoBizziLIVORNO - La produzione di L'elisir d’amore di Gaetano Donizetti ha dato il via alla stagione lirica 2018-2019 al Teatro Goldoni; questo titolo mancava dalla città labronica dal 1929 ed in questo 2018 riappare nella sua versione integrale. L’opera è stata coprodotta dal Fondazione Teatro Goldoni di Livorno e dal Teatro Sociale di Rovigo e con la partecipazione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino nell’ambito del protocollo di intesa “Opera nella Regione Toscana” per gli elementi scenici, costumi e attrezzeria.
L’interesse è tanto e le aspettative ancora di più, ma per certi versi sono state un po’ tradite da una messinscena piuttosto piatta e dozzinale e da un cast che nei due ruoli primari non è stato all’altezza della situazione per lo meno alla recita cui ho assistito: il 28 ottobre 2018.
La regia è stata affidata a Ludek Golat che non ha impresso nessun carattere né ai singoli protagonisti né alle masse alienandoli tra l’immobilismo e talvolta l’inutilità di talune movenze. Tutto è statico e tutto se si muove lo fa goffamente scimmiottando il ritmo della musica mettendo in rilievo un modo arcaico e démodé di far teatro; non ho trovato inventiva, brillantezza, gaiezza, ma neppure la liricità e la catarsi di certi momenti più riflessivi e, se vogliamo, drammatici.
A nulla sono valse le belle pitture in stile macchiaiolo che dominavano lo sfondo del palcoscenico nel tentativo di ravvivare una drammaturgia, prevalentemente bucolica, in cui i protagonisti avrebbero dovuto muoversi all’interno dell’agriturismo denominato Tristano e Isotta, di proprietà della giovane fittaiuola.
Sconcertanti poi i costumi mutuati dalla produzione fiorentina del “Maggio” in stile prettamente “west” americano che cozzavano irrimediabilmente nel consesso del palcoscenico che si collocava in un ambiente mutuato dalla campagna toscana; mentre erano perfetti nella produzione vista nel teatro fiorentino.
Dopo quasi cento anni sarebbe stato degno celebrare Donizetti ed una delle sue opere più famose in altro modo e con altro spessore, ma nulla più che una dozzinale accozzaglia di mercanzia. Buone le luci di Michele Rombolini.
Non è andata meglio dal punto di vista musicale dove la direzione del M° Marco Severi a capo dell’Orchestra Sinfonica Città di Grosseto ha reso una partitura cesellata di finezze in una scorribanda per musicisti immersi in sonorità traboccanti e tracotanti con tempi frenetici e quasi isterici trovando rara affinità con il palcoscenico e coprendo i solisti quasi costantemente, senza far emergere nouances interpretative di nessun genere.
Silvia Lee si è dimostrata un’Adina volenterosa nell’affrontare la parte, ma molto in sofferenza; se le movenze sceniche la potevano far assimilare più ad una ragazza coccodè che non ad una tenutaria, l’emissione è risultata sempre in costante affanno per planare poi verso il finale in uno stato molto precario con evidenti cedute di suono, di appoggio e quindi di intonazione, esasperate da un ritmo e da sonorità sempre più incalzanti e poco inclini a sopperire alla difficoltà dell’artista.
Note negative anche per il tenore Tatsuya Takahaschi nel ruolo di Nemorino; costantemente in pista sulla circonvallazione dell’intonazione senza mai trovare l’uscita giusta dalla tangenziale della precarietà ha condotto il personaggio verso un declivio sempre più scosceso terminando l’opera in uno stato piuttosto debilitato nel fisico e nel suono.
Interessante invece l’apporto vocale delle due voci mediane maschili nonostante un apporto scenico e registico quasi infantile e per nulla accattivante: Matteo D’Apolito è un Dulcamara simpatico e piuttosto piacione che ha fatto di tutto per poter emergere con la sua vocalità piena e rotonda, ma che spesso ha lottato strenuamente con tempi e volumi poco consoni; nulla a che dire per eleganza di emissione, corretta intonazione e proiezione di suono.
Identico giudizio anche per Italo Proferisce che nella sua vivace istrionicità ha tratto dalle pagine di Belcore un bel canto legato e rotondo con precisione di intonazione e gusto nel porgere la parola scenica.
Simpatica e frizzante Maria Salvini nei panni di Giannetta.
Veramente piacevole e preciso il Coro Lirico Livornese preparato e diretto dal M° Flavio Fiorini che si è ben distinto per preparazione vocale e per incastro con le voci soliste delineando pagine di assoluta fioritura vocale.
Grande assente il pubblico livornese che ha reso triste una platea in cui si evidenziavano molti posti vuoti, per non parlare poi dei palchetti che sono stati aperti solo nel primo ordine.

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Crediti fotografici: Augusto Bizzi per il Teatro Goldoni di Livorno
Nella miniatur in alto: il tenore Tatsuya Takahaschi (Nemorino)
Al centro in sequenza: Silvia Lee (Adina) con Takahashi; Matteo D'Apolito (Dulcamara) con Silvia Lee; Maria Salvini (Giannetta); e Italo Proferisce (Belcore)
Sotto: una bella panoramica di Augusto Bizzi sull'allestimento dell' Elisir d'amore






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