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Quattro opere seguite all'anteprima pių per cultura personale che per approccio critico... |
Festival Verdi impressioni d'un cronista |
Simone Tomei |
Pubblicato il 30 Settembre 2018 |
PARMA - La fine del mese di settembre richiama melomani, critici e curiosi del mondo del melodramma in terra emiliana e più precisamente a Parma per l’atteso Festival Verdi che quest’anno ha raggiunto la sua maggiore età; un Festival preparato nei minimi dettagli e con una cura quasi certosina per i dettagli: prova ne è, tra le la altre, il numero unico “Festival Verdi journal” che già da tempo è a disposizione del pubblico con interessanti saggi scritti da esperti del mondo musicologico. La mia presenza all’evento parmense si è concretizzata, mio malgrado, solamente nell’imminenza dell’inaugurazione ed è stato grazie all’impegno dell’Ufficio Stampa che sono riuscito ad assistere a tutte le quattro opere in cartellone pur dovendomi accontentare, tranne una, delle prove generali che, per certi versi, sono ancor più emozionanti; in esse infatti si concentra il frutto del lungo lavoro dei giorni precedenti e si racchiudono emozioni, angosce e timori diversi dalle recite di cartellone; fatto sta che per questo Festival ormai maggiorenne il mio racconto non può che esporre questo tipo di mista esperienza nella quale ho avuto modo di vivere per tre giorni la città ed i suoi dintorni comprendendo ancor meglio quanto il Cigno di Busseto sia amato sia tra le vie storiche che nei dintorni, dove ogni frazione, ogni strada ed ogni portone risuona della sua presenza, della sua musica e del suo spirito.
Le Trouvère - Prova generale del 26 settembre 2018 - Teatro Farnese In italiano fu Il Trovatore, ma nel 1857 diviene in francese Le Trouvère: la “prima” fu all’Opéra di Parigi il 12 gennaio del 1857, su libretto di Émilien Pacini che fece un adattamento dell’originale testo italiano di Salvatore Cammarano; per accontentare le esigenze del Teatro francese vi fu l’aggiunta d’obbligo delle pagine del balletto del terzo atto, ma non solo queste pagine segnano la differenza con l’opera italiana: vi sono infatti numerose diversità che rendono indubbio il fatto che quella francese sia davvero un’altra opera di Verdi; meno truculenta, meno sanguigna, più dedita a trovare quell’intimità introspettiva dei personaggi che sostanzialmente vivono, come sottolinea il regista Robert Wilson, geometricamente un dramma familiare in cui gli elementi distanti da essi - il coro in primis - rappresentano solo un mero contorno che non deve disturbare la drammaturgia; vediamo infatti le masse guadagnare il palcoscenico in maniera molto discreta solo allo scopo di eseguire la parte musicale sempre in penombra avvolti dall’oscurità dei costumi e dei copricapi per poi altrettanto sommessamente dileguarsi al di fuori della scatola in cui si svolge il dramma. Una scatola fatta di colori tenui che ruotano tra il grigio e l’azzurro ghiaccio elegantemente e sapientemente illuminati da Solomon Weiasbard che con l’aiuto di luci a led, di finestre che si aprono sui contorni della scatola ed un taglio trasversale dell’ultima scena riempie la scena come la più copiosa delle scenografie, ma scenografia non è se non la traduzione delle emozioni e degli stati d’animo che la drammaturgia impone agli interpreti; luci insomma che parlano e che fanno di questo allestimento un gotha dell’eleganza e della fantasia registica che pur discostandosi da una visione “classica” e di “tradizione” ci fa gustare la sensazione del bello, del raffinato e del fascino cui contribuiscono con efficacia i costumi stilizzati e severi di Julia von Lellwa ed un conturbante trucco per mano del Make-up design Manu Halaligan; le movenze sceniche rarefatte e raccolte nel denominatore comune dell’essenzialità ci permettono da una parte di carpire maggiormente l’indole del personaggio e dall’altra mettono in rilievo - ove ci sia - la capacità dell’artista di trasmettere emozioni solo attraverso la sua voce; a completamento descrittivo delle scene ci accoglie all’ingresso nella sala barocca seicentesca di Giovanni Battista Aleotti per Ranuccio Farnese Duca di Parma e Piacenza, la presenza sul palco di un uomo barbuto, seduto immobile in questa scatola vuota che sarà l’arena della drammaturgia.
Tutto è immobile e la staticità regna sovrana per accogliere con grazia ed estrema delicatezza il ricordo che rappresenta il succo del dramma: ecco quindi che ogni personaggio fa del suo ingresso il proprio racconto aiutato da elementi scenici che definirei quasi dei tocchi magici: immagini di Parma agli inizi del '900 che appaiono sul fondale quasi a ricordarci un tempo che fu e dal quale prendono vita gli eventi, una donna alla fontana, con accanto due bambine che si divertono intorno ad essa quasi a ricordare una fanciullezza spensierata che non esiste più, una donna d’altri tempi che con passo flemme spinge una carrozzina mentre Fernand parla del penoso racconto per poi ripresentarsi scheletrica nel momento in cui il dolore ed il dramma di Azucena si manifestano nel suo racconto e nel duetto con Manrique. Tutti elementi di grande fascino che spesso non necessitano di essere capiti, bensì di essere ammirati come un quadro in cui l’arte è di rarefatta bellezza. Elemento poco fine ed alla lunga disturbante la presenza di molti boxeur che a ritmo di musica vanno ad affollare il palcoscenico del Farnese durante i venticinque minuti delle danze del terzo atto; un’idea che poteva anche essere geniale vista l’eterogeneità dei danseurs e delle danseuses, ma che la monotonia della ripetizione dei gesti ha reso sensibilmente noioso. Questa originale lettura è stata sposata a piene mani dal direttore Roberto Abbado che ha saputo raccogliere le sensazioni e le suggestioni visuali e le innovazioni musicali rispetto alla partitura “italiana” suscitando suoni e nouances orchestrali - dove era impegnato l’ensemble felsineo del Teatro Comunale - oniriche, elegiache e corroboranti, ma mai debordanti con una scelta azzeccata dei tempi e delle agogiche e trovando perfetta intesa con il palcoscenico in cui il Coro, anch’esso del capoluogo emiliano, si è perfettamente inserito in un’oasi sonora calda e densa quasi a voler contrastare i colori freddi e rarefatti della regia. Per quello che riguarda il cast impegnato nel ruolo del titolo il tenore Giuseppe Gipali che in questa prova generale si è limitato ai movimenti scenici in quanto colpito da un malanno di stagione; vista la particolarità dell’allestimento il cover ha cantato la parte a lato del palcoscenico; l’impegno canoro è stato quindi appannaggio di Bumjoo Lee che con eleganza, stile e una vocalità di tutto rispetto ha ottemperato alle esigenze della partitura; la voce corre, si libra nel non facile ambiente del Teatro Farnese e trova le giuste sonorità sia nelle parti solistiche che in quelle di assieme dove si è inserito con una precisa interazione. Al soprano siciliano Roberta Mantegna impegnata nel ruolo di Léonore non posso non imputare una correttezza esecutiva, unita a grande musicalità e precisa intonazione; in questo ruolo però mi è sembrato che la sua premura fosse più quella della ricerca di un suono puntuale e preciso piuttosto che cercare l’interpretazione ed il dramma del personaggio; ne è risultata un’esecuzione musicalmente ineccepibile, ma poco volta alla restituzione del personaggio che ha spesso latitato. Degno di lode Le Comte di Luna per voce del baritono Franco Vassallo; le movenze quasi kabukiane sembravano far cadere il personaggio nell’alea dell’anonimità, ma il riscatto vocale ha fatto sì che, seppur mitigato dalla riscrittura francese, ancor più ha messo in luce una nitidezza sonora, un’emissione morbida ed un fraseggio elegante che ha reso l’aria Son regard, son doux sourire un cesello di raffinatezza interpretativa completando con l’interpretazione vocale una insita complessità registica. L’omogeneità del timbro, la regalità dell’emissione e la ieraticità plastica del personaggio come disegnato dalla regia, hanno reso il personaggio di Azucena la bohémienne, un’altra perla in questo giardino di ghiaccio; il mezzosoprano Nino Surguladze ne è stata l’incarnazione ed ha saputo trarre vantaggio dalla plasticità del personaggio sfruttando appieno le doti canore in cui domina una uguaglianza sonora in tutta l’estensione e dove gli acuti trovano una naturale proiezione senza mai essere pesanti o stridenti, ma appoggiano su un tappeto di morbida potenza. Tenebroso, ma non cupo il Fernand di Marco Spotti che avvolto dal costume nero e dal cappello ad unicorno come tutti i condottieri nobili, ha regalato un personaggio chiave del dramma con elegante dizione e nobiltà di intenzioni. Di grande pregio i personaggi di fianco: ottima personalità per l’Inès di Tonia Langella; precisi ed puntuali Un vieux Bohémien di Nicolò Donini con Ruiz e Un Messager di Luca Casalin.
Un giorno di Regno - Prova Generale del 27 settembre - Teatro Verdi Busseto Si è sempre pensato che questa compimento giovanile potesse annoverarsi tra le opere “poco riuscite” di Giuseppe Verdi: Il finto Stanislao, ovvero Un giorno di regno, tratta delle imprese amorose compiute da Beaufleur (ribattezzato Belfiore) sotto le sue mentite spoglie regali. Verdi si trovò in difficoltà sin dall'inizio; tanto per cominciare il suo umore era sempre stato triste, quasi cupo, e le morti dei suoi due bambini (una femmina ed un maschio) succedutesi a poca distanza di tempo fra il 1838 e il 1839, non avevano fatto che sprofondarlo ancora di più nella depressione; in questo stato d'animo non era certo propenso a musicare una commedia. Di fatto sarebbero passati più di cinquant'anni prima che Verdi affrontasse di nuovo un soggetto comico (e sarebbe stato il Falstaff, nel 1893). Non molto dopo l'inizio del lavoro fu vittima di un attacco di angina, ed ancora poche settimane dopo sua moglie Margherita morì di encefalite. Finalmente, quando Un giorno di regno venne rappresentato per la prima volta alla Scala il 5 settembre 1840, andò incontro ad un insuccesso talmente completo che solo la prima delle cinque repliche previste ebbe effettivamente luogo. Verdi era tanto disperato che giurò di non comporre mai più in vita sua. Merelli lo sciolse dal contratto, ma fu grazie al suo tatto ed alla sua diplomazia (e ai bei versi di Solera nel Nabucco) che fu possibile ricondurlo alla sua vera vocazione. In questo contesto iniziale la poca fortuna del titolo sembra farlo assurgere a opera poco riuscita; ecco che quasi venti anni or sono al Teatro Regio di Parma fu realizzata con un cast di grande lignaggio e con la regia esilarante di Pier Luigi Pizzi. Il piccolo teatro di Busseto non ha gli spazi dei Teatri parmensi e quindi l’adattamento è d’obbligo; l’abitazione diventa una bianca villa palladiana ed anche la finezza delle movenze sceniche si trasforma in atteggiamenti un po’ più “grossier” con perdita di quell’eleganza cui ci aveva abituato il buon Pizzi, ecco quindi che la regia, scene, costumi e luci di Massimo Gasperon toglie un po’ di quella storicità cui eravamo abituati e riporta il tutto al gusto frizzante dal sapore un po’ macchiettistico che sembra non dispiacere al pubblico un po’ rumoroso e ciarliero della prova generale; certo l’eleganza e la sobrietà dei momenti scenici da cui scaturiva la vis comica, ma mai volgare, della drammaturgia qui mira ad un impatto più forte ed immediato, direi quasi di stampo televisivo, con il rischio di aver ridotto il tutto a spettacolo di varietà con una perdita sostanziale dell’impianto originario che rimane solo “un progetto originale di Pier Luigi Pizzi per il Teatro Regio di Parma”; si vede certamente molto di peggio e senza dubbio è importante mettere in luce la fresca novità in questa ripresa bussetana che ha visto in campo molti giovani artisti provenienti dal Concorso Voci Verdiane Città di Busseto fra i quali molti hanno già mosso i primi passi anche su palcoscenici importanti.
Una gentile Tsisana Giorgadze sa mettersi in luce per una Giulietta dolce, con una voce che si bea di morbidezza e lucente smalto. Dopo una partenza leggermente in salita emerge anche Perrine Madoeuf nei panni di una scaltra Marchesa del Poggio su cui si snoda, seppure in maniera velata, tutta la drammaturgia ; la cavatina di sortita gode di belle intenzioni, ma sembra quasi il timore a prevalere sul resto; il riscatto avviene nella ripresa dove l’emissione si fa più sicura e scaltra come il ruolo che interpreta risultando convincente sia scenicamente che vocalmente. Il Cavalier Belfiore di Alessio Verna si distingue per un timbro rotondo, ottima dizione, elegante presenza scenica e grande capacità di interazione con gli altri personaggi; anche l’atteggiamento tra il serio ed il faceto va di pari passo con l’emissione vocale che sempre accompagna gesti ed intezioni. Levent Bakirci è un cantante istrionico vocalmente e scenicamente; lo ricordo con piacere ne Il prigioniero di Luigi Dallapiccola al Teatro del Maggio dove seppe rendere con franca partecipazione un ruolo drammatico per eccellenza; ritrovarlo in questo contesto “buffo” come Barone di Kelbar è stato un godimento per l’occhio e per l’orecchio confermando le piacevoli impressioni fiorentine; la voce è solida, penetrante e malleabile alle esigenze della partitura. Bravo anche Matteo Loi nel ruolo del Tesoriere La Rocca dove manifesta ironia e alterigia in modo sobrio senza perderne il carattere. Carlos Cardoso gode di un metallo vocale molto piacevole che sa reggere una parte un po’ scomoda come quella di Edoardo; nell’emissione la zona più acuta è quella dove ho notato qualche affanno, ma credo che la costanza nello studio e nella ricerca di una maggiore uniformità, soprattutto dalla zona del passaggio, sia un viatico per poter sentir presto parlare di questo giovane interprete; il materiale è davvero di prim’ordine. Completavano il casto Rino Matafù nei panni di un bravo Delmonte e Andrea Schifaudo ottimo Conte di Ivrea che per la sua qualità vocale meriterebbe senza dubbio ruoli più imporanti. La direzione di Francesco Pasqualetti è stata buona per i tempi scelti, ma ha peccato per sonorità talvolta travolgenti per il palcoscenico che si è visto inondato di una massa sonora strabordante. Impegnati sul fronte musicale d’assieme l’Orchestra ed il Coro del Teatro Comunale di Bologna.
Macbeth - “Prima” del 27 settembre - Teatro Regio Parma Come il grande Alessandro Manzoni decise di “sciacquare i panni in Arno” per arrivare alla stesura definitiva del suo romanzo I promessi sposi. Così verdi dopo la prima edizione del Macbeth che porta la data del 1847 decide di andare sulle rive della Senna e lì provvedere alla revisione della partitura che poi consacrerà come definitiva: siamo nel 1865 e questa rivisitazione che non va troppo per il sottile, lascerà ai posteri il capolavoro che coniuga con maestria il Teatro di Shakespeare e la tradizione musicale italiana in un capolavoro di drammaturgia. Il merito di un Festival monotematico come quello di Parma é di riproporre tutta la produzione del compositore cittadino proprio perché ritengo sia suo compito precipuo quello di fare “Cultura” a tutto tondo sul cittadino più illustre. Opera discontinua e forse un po’ poco nell’orecchio per poterne apprezzare a pieno le peculiarità, ma questa prima versione rappresenta per il protagonista una fatica immane che diventa iperbolica nel terzo e quarto atto; personalmente avverto la mancanza di un’aria come La luce langue che sorge dalle acque della Senna in cui affoga senza patirne il dispiacere Trionfal! Securi alfine che risente ancora molto dello stile compositivo dei primi anni dell’ottocento in cui le agilità e la collocazione nella zona più acuta del rigo ne fanno un’aria poco felice e di poca soddisfazione per l’esecutrice. Proprio in relazione alla riscrittura verdiana dell’opera cosi Marco Targa in un suo saggio scrive: “… Probabilmente quello che riusciva meno accettabile per la critica dell’epoca non era tanto l’aspetto fantastico in sé, quanto il fatto che attraverso esso potesse penetrare anche nell’opera quella categoria del brutto come oggetto di rappresentazione che costituisce uno degli aspetti più innovativi dell’estetica romantica. In questo senso acquistano un significato particolare anche quelle parti d’opera che paiono ancora legate alle grossolanità dello stile acerbo del primo Verdi. Ad esempio, la scena della festa del Finale del secondo atto, dai tratti barbarici o la Marcia del primo atto, segnata in partitura con la dicitura “musica villereccia”, che secondo il provocante giudizio di Baldini è una delle pagine migliori di Verdi proprio perché ancora interamente avvolta nel genuino primitivismo della prima maniera verdiana. Che l’opera fosse affetta da squilibri qualitativi era cosciente Verdi stesso, tanto che in occasione della ripresa al Théâtre Lyrique di Parigi, nel 1865, decise di riscriverne alcune parti e di migliorare la strumentazione di altre. Con questo rifacimento vennero introdotte l’aria di Lady Macbeth “La luce langue” del secondo atto, e il duetto che chiude il terzo atto, vennero riscritti il coro “Patria oppressa” e l’intero finale dell’opera, con l’aggiunta del brano fugato che accompagna la battaglia conclusiva ed il coro di vittoria. Queste aggiunte successive, rimaste nella versione attualmente eseguita, decisamente migliori rispetto ai rispettivi brani della versione del ’47, recano già i tratti dello stile maturo del compositore e generano quindi con le restanti parti uno scarto stilistico che è uno dei difetti ineliminabili dell’opera. Nonostante queste risapute carenze, il Macbeth è una delle tappe più importanti che il Verdi degli “anni di galera” compie nel cammino verso un teatro musicale in cui all’espressione dell’idea drammatica partecipino con uguale importanza la musica, la recitazione, la messinscena, in una sorta di Gesamtkunstwerk in salsa italiana, per alcuni aspetti ancora un po’ ingenuo e istintivo, ma già consapevole delle enormi potenzialità espressive in esso insite. Essa ha quindi il fascino di quelle opere non completamente risolte, ma nelle quali si possono scorgere i segni di una grandezza che solo nelle opere successive sarà portata a perfezione…”
Decisamente inconcludente è stato l’allestimento scenico che si è concretizzato nella regia di Daniele Abbado; nemmeno l’idea può essere salvata né tanto meno la sua realizzazione che ha posto sul palco una serie di sipari in plastica semilucida, che si muovono per delineare indefiniti spazi scenici, in cui una pioggia costante e nebulizzata (non tanto) si abbatte sui protagonisti creando oltre che il fastidio dell’essere sempre umidi anche un disturbo non indifferente per la visione; a questo uniamo i costumi di Carla Teti che oso definire “anonimi” per i protagonisti e a mio avviso brutti per le comparse soprattutto quelli di inizio secondo atto rendendo ancor più inverosimile la scena nella quale al gusto kitsch si sono unite improbabili movenze coreografiche curate da Simona Bucci. Per il resto nulla di nuovo “sotto la pioggia” con qualche trovata delineata dalle luci per mano di Angelo Linzalata e dalle proiezioni della foresta nel quadro finale, ma in sostanza uno spettacolo decisamente poco riuscito di cui il Teatro d’Opera avrebbe fatto tranquillamente a meno. Sul fronte musicale decisamente meglio con un cast di tutto rispetto che ha saputo onorare egregiamente la prima stesura verdiana. Il baritono Luca Salsi nel ruolo eponimo è partito con un po’ di smarrimento evidenziando un approccio alla spartito timido ed abbozzato, ma è andato via via crescendo con un finale da grande istrione del palcoscenico guadagnandosi un grande successo personale proprio nella sua città. Egregia anche la Lady di Anna Pirozzi che pur non mettendosi in mostra con le famose arie dell’edizione parigina ha saputo ben distinguersi per profondità di temperamento, partecipazione emotiva, cura del suono e della parola encomiabili. L’arte dell’eleganza canora ci è stata data dal basso parmense Michele Pertusi; con signorilità nel fraseggio, cura degli accenti e grande attenzione alle sfaccettature del personaggio ha saputo disegnare un Banco da manuale. Il tenore Antonio Poli si impone in un Macduff partecipe e sempre attento al fraseggio che risulta nitido e ben a fuoco con una proiezione del suono che abbraccia con facilità tutta la sala. Note positive anche per Matteo Mezzaro che si dimostra un vindice battagliero Malcom. Interessante la prova di Alexandra Zabala (Dama) che si erige a comprimaria di lusso; a completamento del cast: Gabriele Ribis (Medico), Giovanni Bellavia (Sicaro, Domestico e Prima apparizione) ed infine Adelaide Devanari (Seconda e terza apparizione). Eccelsa la prova del coro preparato e diretto dal M°Martino Faggiani che oltre alle pagine di assieme ha letteralmente giocato con tutti i colori possibili all’inizio del terzo atto in cui Patria oppressa, seppur nella versione meno conosciuta, è stato veramente un quadro da ammirare e godere. In buca l’Orchestra Filarmonica Toscanini è stata partecipe e fedele alla lettura del M°Philippe Auguin del quale ho apprezzato la morbidezza ed un approccio più tendente al meditativo che non all’irruenza; il suono è pulito, asciutto, omogeneo e si sposa felicemente con un palcoscenico che rispetta e segue il movimento della bacchetta direttoriale. Poche e sguaiate, ma al tempo stesso timide e pusillanimi, le contestazioni da parte del loggione, dove anche io ero seduto, che hanno accompagnato i saluti finali, ma in generale tutti gli altri spettatori sono stati prodighi di applausi per tutto il cast.
Attila - Prova generale 28 settembre 2018 - Teatro Regio Parma Attila, Konig der Hunnen di Zacharias Werner è già un'opera lirica quasi a metà, seppure di tipo più tedesco che italiano. Lo stesso autore la descrive come "un dramma romantico", pregno di tutte le ridondanze dell’espressione usata nella Germania dell'Ottocento. Attila è un antieroe, un personaggio che è schiavo della solitudine, nel bene e nel male; un uomo che, seppur nelle sue scelte scellerate, non indietreggia mai e che si troverà poi vittima e carnefice della sua stessa esistenza. A differenza di molto teatro di prosa, Attila contiene un certo numero di cori sul modello greco un tipico esempio delle compromissioni classiciste che ancora legavano i primi romantici. Non servirebbe altro per interessare un operista; già Beethoven aveva preso in seria considerazione l'idea di musicare il soggetto di Werner, e Verdi si attaccò entusiasticamente alla stessa idea col librettista Piave nella primavera del 1844, esponendogliene le linee programmatiche in una delle sue caratteristiche lettere incalzanti:"Eccoti lo schizzo della tragedia di Werner... Sono del parere di fare un prologo e tre atti. Bisogna alzar la tenda e far vedere Aquileia incendiata con coro di popolo e coro di Unni. Il popolo prega, gli Unni minacciano ecc. ecc… poi sortita di Ildegonda, poi d'Attila, ecc. ecc... e finisce il prologo. Aprirei il primo atto in Roma, e, invece di far la festa in scena, farla interna ed Azzio (Ezio) pensoso in scena a meditare sugli avvenimenti ecc. ecc…" "Finirei il primo atto quando Ildegonda svela ad Attila il nappo avvelenato, per cui Attila crede che per amore Ildegonda lo sveli, quando invece non è che per salvarsi il piacere di vendicare la morte del padre e dei fratelli, ecc. ecc.” "Sarebbe magnifico, nel terzo atto, tutta la scena di Leone sull'Aventino mentre sotto si combatte: forse nol permetteranno, ma bisogna guardare di mascherare in modo che lo permettano”. (tratto da La magia dell’opera) Una fitta corrispondenza che denota molto interesse verso il soggetto di Werner, ma l’insuccesso dell’Alzira portò il compositore a scegliere un altro librettista perché si ravvisava la necessità di un “successo sicuro”; il compito di stendere il libretto di Attila fu quindi trasferito da Francesco Maria Piave a Temistocle Solera, che già si era dimostrato un maestro del grande gesto teatrale. La produzione del Festival Verdi 2018 vede come autori della parte scenica il regista e scenografo Andrea De Rosa, il costumista Alessandro Lai ed alle luci Pasquale Mari; la realizzazione segue un ritmo circolare con un praticabile inclinato sul palcoscenico che contiene in sé al centro una grande buca, luogo di rifugio dei cristiani. L’arrivo di Attila crea scompiglio: “urli, rapine…” e questa buca diventa la fossa dei trucidati; tutto bene o male si svolge lì ed alla fine la voragine su cui molti sono periti diverrà luogo di morte per lo stesso protagonista; sono interessanti le figure di questi perseguitati ed uccisi che appaiono spesso in scena incarnando un pieno significato del rimorso e del senso di colpa che egli stesso ha durante il sogno. Una regia lineare, elegante, significativa e per nulla didascalica in cui l’eleganza e la creatività del regista hanno potuto concretizzarsi in uno spettacolo di corroborante visione. Il cast non è stato da meno nel portare il dramma sulla scena. Nel ruolo eponimo la ricchezza vocale di Riccardo Zanellato ha delineato un personaggio veemente, grintoso e temerario senza spacconerie, con spessore vocale, potente proiezione ed una eccellente capacità di rendere la parola scenica in tutte le sue sfaccettature. Elegante, signorile e perfettamente a fuoco anche Vladimir Stoyanov che nel ruolo di Ezio si è fatto valere per la sua grande capacità di dosare le intenzioni e per una linea di canto in cui il suadente legato ne è una delle perle da ammirare; non vi sto a dire cosa non sia stato il duetto del prologo: una sintesi di Teatro musicale da manuale.
Sicura e salda anche l’Odabella di Maria José Siri che come tutti gli altri ha popolato il palcoscenico in maniera egregia; le mende della direzione d’orchestra di cui dirò più avanti hanno leggermente sacrificato il ruolo per il fatto di dovere prestare troppa attenzione alle velocità incalzanti della buca; nonostante ciò, la sua eroina è emersa per temperamento e presenza scenica senza alcun dubbio. Francesco Demuro nel ruolo di Foresto non ha potuto che deliziarci solamente della sua presenza scenica in quanto colpito da morbo stagionale; al suo posto, dalla barcaccia, il tenore Antonio Corianò ha cantato il ruolo con freschezza di timbro riuscendo ad interagire in maniera egregia con il resto del cast mettendo sul piatto una variegata dinamica sonora ed eleganti nouances che gli sono valse da viatico per una grande prova. A completamento del cast un perentorio Leone per voce di Paolo Battaglia e l’Uldino di Saverio Fiore. Egregia senza se e senza ma la prestazione del Coro del Teatro Regio preparato e diretto dal M°Martino Faggiani. Piuttosto male la direzione del M° Gianluigi Gelmetti in buca a capo dell’Orchestra Filarmonica Arturo Toscanini; gli eccessi sonori e la povertà di colori hanno penalizzato un’eccellente compagnia di canto nonostante le voci abbiano saputo tenere testa alle intemperanze orchestrali; anche i tempi, a mio avviso, sono stati troppo incalzanti - in alcuni punti necessari in altri decisamente no - e spesso hanno reso tutta l’esecuzione un po’ generica non permettendo appieno ai cantanti di esprimersi con colori adeguati. Alla fine di questa generale non sono mancati consensi unanimi per tutti.
Crediti fotografici: Lucie Jansch e Roberto Ricci per il Festival Verdi - Teatro Regio di Parma Nella miniatura in alto: Giuseppe Verdi in una fotografia d'epoca Nella miniatura di Le Trouvère: il tenore Giuseppe Gipali (Manrico) Sotto: foto di scena di Le Trouvère Nella miniatura di Un giorno di regno: il tenore Alessio Verna (Cavaliere di Belfiore) Sotto: foto di scena da Un giorno di regno Nella miniatura del Macbeth: il baritono Luca Salsi (protagonista del ruolo eponimo) Sotto: foto di scena del Macbeth Nella miniatura dell'Attila: il basso Riccardo Zanellato (protagonista nel ruolo eponimo) Sotto: foto di scena dell'Attila
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Manon Lescaut e il gesto della Lyniv
servizio di Nicola Barsanti FREE
BOLOGNA - Il Teatro Comunale Nouveau inaugura la propria stagione operistica 2024 con il primo vero e proprio gioiello della produzione pucciniana: Manon Lescaut. Ottima scelta per onorare il centenario della morte del compositore lucchese, avvenuta il 29 novembre del 1924 a Bruxelles. La Manon Lescaut rappresenta per la carriera
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Echi dal Territorio
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Bologna Festival numero 43
redatto da Athos Tromboni FREE
BOLOGNA - La 43.esima edizione di Bologna Festival 2024, da marzo a novembre, presenta alcuni dei più interessanti direttori dell’odierna scena musicale quali Teodor Currentzis, per la prima volta a Bologna con la sua orchestra musicAeterna, Vladimir Jurowski con la Bayerisches Staatsorchester e Paavo Järvi con la Die Deutsche
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Jazz Pop Rock Etno
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Jazz e altro allo Spirito
redatto da Athos Tromboni FREE
FERRARA - Varato il calendario dei concerti "Tutte le Direzioni in Winter&Springtime 2024", organizzata da Il Gruppo dei 10 con qualche novità e collaborazione in più rispetto ai precedenti. La location è (quasi sempre) la stessa: il ristorante lo Spirito di Vigarano Mainarda (Ferrara), nell’intimo tepore delle sue suggestive sale, immerso nella
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Opera dal Centro-Nord
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La bohčme visual della Muti
servizio di Athos Tromboni FREE
FERRARA - Suggestivo l'allestimento di La bohème di Giacomo Puccini curato da Cristina Mazzavillani Muti per il Teatro Alighieri di Ravenna, approdato ieri sera al Comunale "Claudio Abbado" di Ferrara. Pubblico della grandi occasioni ("sold-out" si dice oggi, con un inglesismo ormai sostitutivo di "tutto esaurito" d'italiana fattura); pubblico
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Opera dal Nord-Ovest
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Don Pasquale allestimento storico
servizio di Nicola Barsanti FREE
TORINO - Il titolo designato per l’inaugurazione del cartellone d’opera 2024 del Teatro Regio di Torino è il Don Pasquale di Gaetano Donizetti. Qui riproposto nel fortunato allestimento della fine degli anni '90 del Novecento, firmato da uno dei maestri della drammaturgia musicale italiana: il regista, scrittore e giornalista Ugo Gregoretti, la cui regia
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Jazz Pop Rock Etno
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Jazz Club Ferrara 45 concerti
redatto da Athos Tromboni FREE
FERRARA - Dal 26 gennaio 2024, prende il via al Torrione San Giovanni la seconda parte della 25.ma stagione di Ferrara in Jazz. Grandi nomi del jazz internazionale e largo spazio ai giovani, per complessivi 45 concerti accompagnati da eventi culturali collaterali, realizzati con il contributo del Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna, Comune
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Opera dal Nord-Est
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Bolena e Seymur destino congiunto
servizio di Rossana Poletti FREE
TRIESTE – Teatro Verdi. Nell’ Anna Bolena di Gaetano Donizetti, in scena al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, primeggia la qualità del cast. Un gruppo di cantanti straordinari, che contribuiscono in modo determinante al buon esito della rappresentazione. Se si eccettua qualche piccola quasi impercettibile incertezza nel primo atto la prova
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Opera dal Nord-Ovest
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Haroutounian una Butterfly di riferimento
servizio di Simone Tomei FREE
GENOVA – Prosegue con successo la stagione del Teatro Carlo Felice grazie ad una bellissima produzione dell’opera “nipponica” di Giacomo Pucccini, Madama Butterfly. Il contesto scenico-registico firmato da Alvis Hermanis si sviluppa in uno spettacolo sostanzialmente classico e iconografico dove l’immagine stereotipata del Giappone
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Opera dal Centro-Nord
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Un Trovatore cosė cosė
servizio di Nicola Barsanti FREE
LIVORNO - Torna a distanza di 50 anni di assenza al Teatro Goldoni e 27 anni dopo la sua ultima apparizione nella città di Livorno (ma fu al Teatro La Gran Guardia) Il trovatore, uno dei titoli più amati di Giuseppe Verdi. Un ritorno tanto atteso che non convince, pertanto inferiore alle aspettative. Gli anelli deboli di questa produzione riguardano
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Opera dal Centro-Nord
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Barbiere di Siviglia stratosferico
servizio di Nicola Barsanti FREE
PARMA - Il Teatro Regio di Parma inaugura il cartellone d’opera del 2024 con il fiore all’occhiello di Gioacchino Rossini: Il Barbiere di Siviglia. Com’è noto ai più, nel 1782 Giovanni Paisiello scrisse un’opera dallo stesso titolo e con lo stesso soggetto, da qui la decisione del maestro di Pesaro di intitolare la sua nuova composizione (almeno in un primo
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Opera dal Centro-Nord
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Un Barbiere un po' cosė...
servizio di Simone Tomei FREE
LUCCA - Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini si veste di attualità, attraverso una lettura piuttosto singolare, ma non del tutto dissonante dalle intenzioni musicali e librettistiche, nell’allestimento andato in scena al Teatro del Giglio di Lucca con la firma registica di Luigi De Angelis che ha curato anche scene e luci. In un condominio stile Le Courboisier
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Opera dal Nord-Est
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La Bohčme dei ponteggi
servizio di Athos Tromboni FREE
ROVIGO - Una Bohème senza lode e senza infamia. Così potrebbe definirsi l'allestimento dell'opera di Giacomo Puccini andata in scena al Teatro Sociale. Si tratta di una coproduzione del teatro di Rovigo con il Comune di Padova e il teatro "Mario Del Monaco" di Treviso. Una produzione tutta veneta, considerando la bacchetta affidata a Francesco Rosa
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Eventi
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Ecco la stagione 2024 del Filarmonico
redatto da Athos Tromboni FREE
VERONA - Teatro Filarmonico: dal 21 gennaio al 31 dicembre 2024, sono in programma 5 opere e 10 concerti sinfonici, con grandi interpreti internazionali. Attesissimo il ritorno del balletto, in scena anche nella sera di San Silvestro. Sarà - inoltre - l’anno delle prime assolute e dei grandi omaggi: il 2024 porterà sul palcoscenico del Filarmonico
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