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Il Maestro di Cappella di Cimarosa e il Gianni Schicchi di Puccini hanno chiuso con successo la stagione

Un Dittico curioso ma divertentissimo

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 27 Maggio 2019

190527_Vr_00_GianniSchicchi__FotoEnneviVERONA - Chiude bene. Chiude cioè con ilarità e comicità la stagione del Teatro Filarmonico di Verona che ha messo in scena due componimenti buffi molto distanti tra loro - sia per periodo compositivo che per tempo legato al dipanarsi delle vicende - ma che hanno in comune il paradosso come divertimento, unito ad una musicalità entusiasmante.
Il Maestro di Cappella di Domenico Cimarosa dà il via alle danze in questo pomeriggio di maggio. “Si presume che l’abbia composto tra il 1786 e il 1791 a Pietroburgo, dov’era stato invitato dalla zarina Caterina II. Non si conosce un autografo della musica, né un libretto. Un’unica fonte tramanda il brano, uno spartito per canto e piano edito a Lipsia da Hofmeister intorno al 1813, che lo definisce “ein burleskes Intermezzo” (intermezzo burlesco)… Il maestro di cappella è un intermezzo anomalo. L’azione è continuata (ossia non è articolata nelle consuete due parti da collocare negli intervalli di un’opera in tre atti). Ha un solo personaggio cantante. Il contrasto non è di natura erotico-matrimoniale, bensì artistico-tecnica: un direttore d’orchestra – denominato all’epoca ‘maestro di cappella’ non solo in chiesa ma anche in teatro e in sala da concerto – se la vede con una compagine di suonatori particolarmente riottosa e bisbetica… Nel tema, questo lavoro fa capo al filone del ‘teatro nel teatro’, in voga nel ’700: le mille piccole traversie dell’allestimento di un’opera diventano il soggetto metateatrale di uno spettacolo che mette in mostra sé stesso. La trama è rudimentale. Il maestro vuol provare con l’orchestra un’aria «in stil sublime» (ossia un’aria da opera seria). L’avvio delle prove è un disastro: gli strumentisti attaccano al momento sbagliato. Il maestro deve allora canterellare i motivi di ciascuna parte dell’orchestra, affinché gli esecutori li apprendano e li assimilino a uno a uno. L’addestramento funziona: alla fine, i musicisti sono pronti per cimentarsi in un pezzo di bell’effetto.” (Nicola Badolato, Oh che armonico fracasso, in Musica Docta. Rivista digitale di Pedagogia e Didattica della musica, pp. 71-81).
Protagonista assoluto il fantomatico ed esuberante Maestro di Cappella alle prese con un’orchestra indisciplinata sul palcoscenico guidata concretamente dal M° Alessandro Bonato. Tutti, orchestrali, concertatore, mimi e lo stesso protagonista indossano abiti rigorosamente d’epoca curati da Silvia Bonetti, mentre le scene di Michele Olcese riproducono un salotto “bene” dell’epoca illuminato dai colori e dalle luci di Paolo Mazzoni.
La regista Marina Bianchi costruisce sull’unica scena un discorso più corale, rispetto al solito one man show, attribuendo ai mimi un alter ego degli strumenti indisciplinati; quasi in maniera onomatopeica i movimenti scimmiottano le intemperanze dei musicisti creando un quadretto di elegante e piacevole visione.
Il Maestro di Cappella alias il baritono Alessandro Luongo dipana con sicumera la partitura con una vocalità elegante, sinuosa e talvolta canzonatoria, senza cadere nel ridicolo interagendo disinvoltamente con il concertatore “vero” che ottiene le giuste sonorità dal piccolo ensemble, ma che qualche volta sembra diventare un po’ “isterico” nei tempi di esecuzione; improvvise impennate in accelerando prendono il posto di tempi più rilassati e distesi conferendo una sorta di disomogeneità al costrutto musicale. Soffre di questa intemperanza soprattutto la parte finale che scivola in “allegro troppo vivace” con la pecca di trovarsi scollato con l’unica voce cantante.
Sono solo venti minuti di spettacolo, ma la musica di Domenico Cimarosa si conferma una perla preziosa nell’alea del Teatro d’opera.

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Nella seconda parte del pomeriggio si va avanti nel tempo relativamente al periodo compositivo, ma ci spostiamo indietro di qualche secolo per il periodo drammaturgico con il Gianni Schicchi di Giacomo Puccini.
Siamo nell’Inferno dantesco canto XXX 31, 42-45: “... sostenne,/Per guadagnar la donna de la torma, (cioè la mula più bella della stalla/Falsificare in sé Buoso Donati/Testando e dando al testamento norma”, senza ignorare un'altra fonte, più minuziosa e doviziosa di particolari anch’essi tutti finiti nel libretto che risulta di estremo interesse: si tratta di un brano tratto dal Commento alla Divina Commedia D'Anonimo fiorentino del secolo XIV ora per la prima volta stampata a cura di Pietro Fanfani, tomo I (Bologna, Romagnoli, 1866); di questo ed altro ci parla in un saggio molto interessante dal titolo La modernità retrospettiva del Trittico, Virgilio Bernardoni, Membro del Comitato scientifico del Centro Studi Giacomo Puccini di Lucca: “… Forzano, librettista dell’opera trova bell’e pronta l’articolazione del libretto dell’ultima parte del Trittico nel commento dantesco. …  ... là dove si narra nel dettaglio la vicenda del vero Schicchi e si fa cenno alla preoccupazione dei famigliari del morente Buoso Donati, che paventano un testamento a loro sfavorevole, all’occultamento del cadavere e al travestimento, particolare della ‘cappellina’ compreso, al timore di svelare la truffa che frena l’impulso ribelle dei parenti, allorché il falso legato volge palesemente a loro danno, nonché alla consistenza della parte più appetibile dell’eredità di Buoso, di cui s’appropria il testatore fraudolento. Il libretto – uno dei prodotti di miglior riuscita di Forzano per le trovate buffe e per il congegno drammatico felicissimo che le produce – trova la propria forza propulsiva nella contrapposizione tra la scaltrezza del burlatore e la credulità dei gabbati. Motivo che si tinge anche di vaghissime risonanze sociali nel confronto impari tra la «gente nova», scesa in Firenze dal contado con un bagaglio vincente di energia e d’intelligenza, e le vecchie casate cittadine, piombate in uno stato imbarazzante e risibile di decadenza.

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Insomma, è il comico come dinamismo di forze, in cui il dato lirico-sentimentale si neutralizza e il dato caricaturale e macchiettistico – quello che un tempo Puccini praticava con disinvoltura nel Benoit della Bohème, nel Sagrestano della Tosca e nello zio Yakousidé della Butterfly – finisce relegato in posizione marginale.”
Una scena unica curata da Saverio Santoliquido e Claudia Boasso ci ha di fatto introdotto in una camera arredata in stile borghese del primo novecento fiorentino con una scala che porta su di un terrazzino da quale si pensa possibile ammirare la città rinascimentale; ottima e di gusto la ripresa registica di Matteo Anselmi che subentra all’ideatore primiero Vittorio Borrelli (lo spettacolo è importato dal Teatro Regio di Torino), che è riuscito a infondere vita e carattere ad ogni personaggio con fedele attenzione al testo evitando manierismi ormai fuori luogo.
Egregia la prova di Alessandro Luongo nel ruolo eponimo che anche in questo contesto si è sicuramente fatto valere per vocalità rotonda e precisa, dando maggior spazio al cinico sadismo ed alla scaltrezza che non all’esuberanza. Una piccola nota che mi preme: non credo che le inflessioni troppo esagerate dell’accento toscano giovino alla resa complessiva dello spettacolo, ma probabilmente qualcuno ha imposto questa interpretazione che alla lunga risulta noiosa e stridente con la partitura… bravo comunque.
Barbara Massaro è un’amabile Lauretta che sprigiona freschezza e profuma di buono come il sentimento che l’accompagna.
Frizzante bizzarra e adeguatamente caratterizzata la Zita di Rossana Rinaldi che emerge tanto nella veste attoriale - per la quale avrei osato ancora di più - quanto per quella vocale dove il timbro uniforme e ben proiettato emerge energicamente nei vari momenti di assieme e caratterizza ancor di più la goffaggine del personaggio; scherzosamente dico sempre che la Zita si “misura” sulla parola Ladro pronunciata dopo la beffa dello Schicchi… ebbene: super, super, super… un ladro da manuale con una a tenuta magistralmente.
Rinuccio è impersonato dal giovane Matteo Mezzaro che serve sul piatto  di portata uno squillo argentino ed un colore molto gradevole dando vita e corpo alla suadente aria Firenze, è come un albero fiorito.
Encomio anche per il bravissimo Alessandro Busi nel doppio impegno quale Maestro Spinelloccio e Ser Amantio di Nicolao, sicuro ed affidabile caratterista.
E veniamo adesso a tutti gli altri parenti: buono il Gherardo, Ugo Tarquini; frizzante, squillante e stizzosamente “sdegnosa” la Nella di Elisabetta Zizzo che trova sempre il modo di emergere per spigliatezza e per pasta vocale con acuti ben piazzati ed eccellente servizio alla parola scenica; Betto di Signa è appannaggio di un ficcante Dario Giorgelè; il Simone di Mario Luperi non porta a casa un risultato troppo convincente fallando numerosi attacchi e mettendo in luce un’emissione opaca e spesso forzata con acuti al limite e note gravi svuotate; Marco è incarnato da un bravo Roberto Accurso e La Ciesca, per voce di Alice Marini tende a dare vita ad un personaggio troppo marcato vocalmente con accenti ed inflessioni poco in linea con la leggerezza e la goliardia del contesto.
Completavano con piacevolezza il cast il calzolaio Pinellino, Maurizio Pantò  ed il tintore Guccio Nicolò Rigano mentre il piccolo Gherardino era lo scanzonato Leonardo Vargas Aguilar.
La direzione del M° Alessandro Bonato, giovane di belle speranze, è da encomiarsi per una salda tenuta del rapporto con il palcoscenico con il quale, grazie ad un gesto marcato e preciso, ha intessuto un rapporto di fiducia e stima; l’esuberanza della bacchetta ha avuto come effetto contrario quello di eccedere spesso in sonorità troppo marcate che hanno tolto quel senso di leggera frivolezza che la partitura porta in sé; tutta la prima parte, almeno per quello che riguarda la restituzione del suono a metà platea, è risultata totalmente appannata dalla mole di suono che veniva dalla buca ed ha fatto perdere molte peculiarità delle voci; un po’ incerti e vacui anche i tempi eseguiti che spesso incedevano in andamenti piuttosto lenti e pesanti: le due arie solistiche ed altri momenti che avrebbero richiesto vita ed enfasi, hanno sofferto per questa scelta metronomica. Un giovane che si sta facendo le ossa per il quale la pasta e la verve non mancano… diamogli il tempo per maturare ed il frutto sarà dolce e sugoso.

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Il pubblico non troppo numeroso ha partecipato con attenzione all’insolito dittico ed ha apprezzato l’esibizione con calorosi applausi.
(La recensione si riferisce alla recita di domenica 26 maggio 2019)
Crediti fotografici: Foto Ennevi per il Teatro Filarmonico – Fondazione Arena di Verona
Nella miniatura il alto: il giovane tenore
Matteo Mezzaro (Rinuccio in “Gianni Schicchi”)






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