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Il successo dell'opera di Vincenzo Bellini ottenuto a Firenze per merito del cast, ma...

La Straniera tra horror e trash

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 20 Maggio 2019

190520_Fi_00_LaStraniera_SalomeJicia_phMicheleMonastaFIRENZE - Prosegue con grande partecipazione l’ottantaduesimo Festival del Maggio Musicale Fiorentino che dopo la “prima” dedicata al compositore contemporaneo Aribert Reimann autore di Lear, vede in scena La straniera di Vincenzo Bellini: melodramma in due atti che Felice Romani trasse dal romanzo L’Étrangère di Charles-Victor Prévost d’Arlincourt del 1825, tradotto successivamente in italiano nel 1830. Bellini lo compose fra il settembre del 1828 e il febbraio del 1829 e venne rappresentato per la prima volta a Milano, al Teatro La Scala il 14 febbraio 1829 salvo poi essere riadattato l’anno seguente per il tenore Giovanni Battista Rubini. Nella versione adottata a Firenze si fa riferimento alla prima edizione milanese nell’edizione critica curata da Marco Uvietta per casa Ricordi già eseguita al Teatro Bellini nella città natale del compositore.
Protagonista è l’infelice regina Agnese, abbandonata dal re di Francia per motivi politici e costretta a vivere sotto mentite spoglie lungo le sponde del lago di Montolino in Bretagna, insieme al fratello Leopoldo. Della solitaria straniera, che s’aggira in incognito nella foresta suscitando timori e sospetti, s’innamora Arturo, conte di Ravestel, nonostante sia già promesso ad altra donna.
Le drammatiche conseguenze di questo amore proibito e impossibile sono al centro di un’opera dove il soggetto é puramente romantico, e la musica e la drammaturgia consentono a Bellini di sperimentare soluzioni compositive nuove, allontanandosi con passi felpati, ma non troppo, dal bel canto rossiniano e puntando su di uno stile vocale più incline al declamato al posto delle struggenti melodie che erano il nettare vitale di componimenti quali Norma ed I Puritani. Questa innovativa tecnica compositiva, mai decollata appieno in Bellini, è stata tanto sperimentale quanto negletta con lo sfortunato esito di fare uscire il componimento quasi immediatamente dal repertorio teatrale.
A proposito del libretto dell’opera riporto questo capoverso tratto da Bellini secondo la storia nella nota critica di Francesco Pastura: “c'è, è vero, chi lo ha definito il più bello tra quelli scritti dal Romani: ma io confesso di non essere ancora riuscito a penetrarne la bellezza pur avendolo letto più di una volta e avere assistito a quattro rappresentazioni della Straniera: e in questa mia insensibilità mi sento confortato dall'apprezzamento di Guido Pannain il quale definisce quel libretto caos romantico e incredibile intruglio".
A distanza di pochi giorni dalla rappresentazione inaugurale del Festival dove l’aspetto visivo aveva compensato di gran lunga quello uditivo, mi sono trovato catapultato nella situazione diametralmente opposta: il regista Mateo Zoni concretizza il lavoro in una lettura del dramma piuttosto bizzarra collocandola in un medioevo asettico e, come dice lui in un’intervista televisiva, letto e riproposto con gli occhi di come si immagina oggi questo periodo storico… Mah!
Sembra di vivere in una rievocazione in stile fantasy/horror e kitsch/trash collocata in uno spazio scenico minimale e piuttosto asettico curato da Tonino Zara e Renzo Bellanca impreziosito da costumi di notevole fattura, ma essenzialmente brutti e completamente avulsi dal concetto di servizio al canto e alla scena; Stefano Ciammitti veste interpreti e artisti del coro con copricapi scomodi che, se non impediscono, sicuramente rendono difficoltoso l’uso dello strumento fonatorio creando notevole difficoltà nell’emissione; ecco che un’altra volta ci troviamo di fronte ad un uso improprio della componente scenica che vuol solo far parlare di sé senza nulla aggiungere ad una drammaturgia piuttosto debole e priva di quel guizzo che sarebbe stato necessario per rendere omaggio ad un’opera poco rappresentata, ma che trovo musicalmente molto interessante.
Deludenti anche le luci di Daniele Ciprì che nel passaggio dalla televisione al Teatro non ha forse colto quella distanza abissale che separa i due mondi; prova ne è il fatto che spesso coloro che sono i protagonisti del momento sulla scena spesso sono lasciati al buio mentre il focus della luce è concentrato in altro loco dove l’azione scenica è ferma e statica come fermo e statico è tutto l’impianto registico dal quale emerge un’immaturità di Zoni nell’approccio al Teatro d’opera: immaturità che tradisce ogni afflato drammaturgico assomigliando un po’ a quell’incredibile intruglio succitato, privo però di quel caos romantico che avrebbe impreziosito non poco una messinscena in cui domina una noia mortale ed un’alea spesso cupa e tetra… probabilmente le Moyen Age come si percepisce oggi.

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Musicalmente colpisce l’ecletticità del concertatore Fabio Luisi che, svestiti i panni di Lear, si catapulta in un mondo completamente diverso nel quale, nonostante quella innovatività compositiva di Bellini, si respira a pieni polmoni e con orecchi ben aperti quel meraviglioso afflato della melodia e dell’armonia tonale in cui i suoni provocano slanci del cuore e pace nella mente. Qui Luisi pretende e ottiene dai professori d’orchestra un suono magico, fluido e denso di tutta quella passione e partecipazione che manca sul palcoscenico; l’ampio risalto attribuito agli strumenti solisti esalta il colore e la tempra del compositore siciliano.
L’accompagnamento del canto è fluido, il gesto morbido che culla le voci in maniera quasi paterna cercando sempre di assecondare i respiri e le intenzioni; il suono è pastoso, ma non pesante e quando la partitura lo richiede non esita a diventare fragoroso, ma non assordante restituendo una lettura unitaria che lega ed amalgama il debole costrutto drammaturgico in un discorso omogeneo del quale si percepiscono chiaramente la genesi e la fine.
Il ruolo eponimo è perfettamente centrato dal soprano Salome Jicia che nonostante la sua estrazione puramente rossiniana denota una egregia sicurezza nell’emissione, facendo emergere sensibilità, partecipazione emotiva al personaggio incastonate in un timbro di notevole fattura; il canto trova sfoggio nei momenti più intensi e si fa puro nei passaggi a mezza voce in cui il legato diventa un elemento di fine cesello.
Per il ruolo di Arturo la versione del 1829 affidata al tenore Domenico Reina si incastona prettamente nel registro centrale e trova qualche limite nell’interpretazione di Dario Schmunck; il tenore argentino non gode di un volume troppo ficcante e spesso trova qualche limite di emissione nelle note più centrali riuscendo invece a dare il meglio di sé nella zona più acuta del rigo musicale.

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Scenicamente non risulta pienamente a suo agio ed il costume indossato rappresenta quasi sicuramente un grosso limite ad una disinvoltura nei movimenti; porta a casa dunque una prova onesta, ma poco incisiva.
Il Barone di Valdeburgo trova in Serban Vasile un accorato interprete impreziosito dal ruolo scenico non di antagonista vilain, bensì fratello e consigliere armato di sentimenti nobili e sinceri; una vocalità importante anche se non enorme si imperla di buon legato e affronta con sicumera l’aria del secondo atto Meco tu vieni, o misera; qualche nota sale un po’ troppo nel naso, ma nel complesso la prova è di tutto rispetto.
Laura Verrecchia, affronta il ruolo di Isoletta evidenziando già dal suo momento di entrata tempra e passione nell’interpretazione di un ruolo piuttosto impervio. Prova ne è l’aria del secondo atto Ah! se non m’ami più nella quale duettando con il flauto - che qui diventa strumento obbligato - imperla il testo ed il rigo musicale di eleganza e nobile fraseggio che le valgono accorati applausi a scena aperta.
Shuxin Li come Signore di Montolino non evidenzia colore e pathos necessari, mentre Adriano Gramigni affronta ieraticamente il Priore degli Spedalieri.
Bello squillo per Dave Monaco nei panni del calunniatore Osburgo che però mette in evidenza qualche falla nel fraseggio e poca veemenza nei momenti più concitati, ma… la voce è bella e di buona fattura; maturerà.
Prova magistrale per il Coro preparato e diretto dal M° Lorenzo Fratini che anche in questa produzione ha messo in risalto colori e sapori di rara fattura conferendo sia ai momenti solistici che a quelli di assieme la necessaria cornice per rendere la produzione un grande vanto sotto l’aspetto prettamente musicale per il Teatro del Maggio.
Il pubblico numeroso e partecipe in questa domenica 19 maggio 2019 non ha fatto mancare il suo contento con sonori applausi a fine recita per tutti.

Crediti fotografici: Michele Monasta per il Teatro dell’Opera di Firenze - Maggio Musicale Fiorentino
Nella miniatura in alto: il soprano Salome Jicia nel ruolo eponimo






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