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Il collettivo venuto dalla Russia AES+F mette in scena l?ultima opera di Puccini stravolgendo tutto

La Turandot č avveniristica e provocatoria

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 07 Giugno 2019

190607_Bo_00_Turandot_AnaLucreciaGarcia_phRoccoCasaluciBOLOGNA - È proprio vero che spesso la realtà riesce a superare di gran lunga la fantasia, ma, quando si odono reazioni sconvolte a qualche nuovo allestimento operistico, si spera sempre che tali resoconti siano frutto dell’aver preso certe situazioni un po’ troppo “di pancia” o dell’aver visto le cose con un occhio “antico” e poco adattabile alla modernità o all’evoluzione che il tempo porta con sé.
Mosso più dalla curiosità che non da una reale necessità, ho dunque deciso di assistere di persona alla discussa Turandot creata da Fabio Cherstich per il Teatro Massimo in coproduzione con il Badisches Staatstheater Karlsruhe e il Teatro Comunale di Bologna. Così, nel primo pomeriggio di mercoledì 5 giugno 2019, ho raggiunto la città delle due Torri per vedere con i miei occhi la fonte di tante polemiche in un Comunale pressoché esaurito.
Ebbene, penso sia veramente difficile tradurre in parole ciò che è accaduto sul  palcoscenico bolognese. Sempre parlando dell’ultima opera di Giacomo Puccini, ricordo che, quando un paio di anni fa ne vidi un altro allestimento orrendo al Teatro Sferisterio di Macerata, credetti sinceramente di aver assistito a quanto di peggio la mente umana potesse concepire. Il famoso detto “al peggio non vi è mai fine” trova però in questa Turandot la sua più completa materializzazione.

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Scomodando dalla Russia il collettivo artistico AES+F, Cherstich confeziona uno spettacolo che suscita soprattutto un forte senso di nausea e asfissia.
Tengo a precisare, a mio modesto parere, che non possiamo parlare di una regia e questa grande assenza domina le due ore e mezzo di spettacolo. Non possiamo nemmeno parlare di scenografia, se non per due scalinate rosse che si muovono in maniera disorganica. Non possiamo parlare né di luci, né di costumi (decisamente orrendi e fuori di ogni logica): ma, soprattutto, non possiamo assolutamente parlare di drammaturgia teatrale.
Siamo di fronte ad una rigurgitata di video su tre schermi giganti (posti sul fondale del palcoscenico) con l’aggiunta casuale, in prossimità del proscenio, di un quarto, che spesso si limita a raddoppiare le immagini degli altri. Tanti video per vedere cosa? Difficile da dire, impossibile da interpretare. Questi signori vorrebbero comunicarci che siamo nella Cina del 2070 (e, se il futuro dovesse essere questo, spero sinceramente di morire prima), fatta di astronavi, megalopoli illuminate e avatar maschili, tesi a simboleggiare i tredici principi fatti giustiziare dalla crudele principessa. Costoro appaiono, scompaiono e riappaiono, talora in piedi, talora sdraiati, sia senza testa, sia in una modalità che ricorda più una sfilata di mutande della Intimissimi (impressione rafforzata dal fatto che sono letteralmente in mutande), piuttosto che una schiera di principi pretendenti.
Quindi appare Turandot, prima in veste umana (adorna di lucine come un albero di Natale tremendamente kitsch) e poi replicata in varie forme di donna sui video ridondanti. Il meglio arriva quando una di queste figure femminili si duplica, facendo scaturire dal proprio corpo altrettanti cloni, mentre la parte coinvolta nel “parto” si apre, prendendo la forma di una vagina dalla quale escono le altre “lei”, fino alla formazione di una figura inverosimile e decisamente nauseante. Qualora non bastasse, alla fine giunge un’enorme creatura felina dal muso accattivante (proprio da “gatta morta”) che si intrattiene lussuriosamente con alcuni degli avatar maschili sopracitati e l’unione di tutti gli elementi viene celebrata con un’orrenda visione dominata da una giunonica divinità femminile in stile Buddha, attorno alla quale tutti si affollano, comunicando una sensazioni più di orgia caotica che di trionfo pacificatore.
Sinceramente, dubito che il lettore possa capire ciò che ho cercato di scrivere, ma di meglio non sono riuscito a fare per comunicare ciò che il mio occhio ha sofferto in queste due ore e mezzo. Una conclusione personale, però, voglio esprimerla: sono convinto che la genialità sia un elemento importantissimo nell’elaborazione di una regia e che tale dono, capace di andare oltre le parole e la musica, possa fornire un importante valore aggiunto alla riuscita di uno spettacolo. Ritengo tuttavia che la genialità non debba coprire (o violentare) né la musica, né l’artista, né la visione. Mi scuso con chi si impegna con serietà nella ricerca di allestimenti intelligenti e innovativi nel pieno rispetto dell’opera lirica, ma questa “Turandot” (le virgolette si rendono necessarie per non offendere Puccini) nausea a tal punto che l’unico conforto possibile (quello musicale) è percepibile unicamente chiudendo gli occhi. Solo allora, non sentendo null’altro che la musica, è possibile lasciarsi cullare dai bei ricordi di tante Turandot passate oppure abbandonarsi alla fantasia e costruirsi una propria regia immaginaria. Ma il Teatro è altro: se mi siedo in platea, accetto tranquillamente di vedere uno spettacolo che possa anche non piacermi (sono le regole del gioco), ma non qualcosa che uccida in modo tanto gratuito ogni desiderio di rimanere lì seduto.

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Musicalmente le sensazioni sono totalmente opposte e la lettura del M° Valerio Galli tende a valorizzare maggiormente più la dinamicità della drammaturgia - quella originaria - che non l’aspetto più meditativo e riflessivo della parola scenica. Il gesto nitido e spedito si concretizza in un suono pulito ed elegante, cosicché l’Orchestra del Teatro Comunale possa accompagnare i cantanti senza mai travolgerli con ondate disumane di suono (già bastavano i mostruosi video ad inondare di stimoli non graditi il pubblico presente in sala).
Sul versante vocale, una bellissima scoperta, nel ruolo eponimo della principessa di gelo, il soprano Ana Lucrecia Garcìa: una voce importante che non fa dell’urlo la cifra stilistica primaria (come accade sovente in Turandot), ma sa gestire il suono mettendo in luce dinamiche variegate ed emozioni policrome. Quando c’è da dare, dà, ma con un canto che mai si traduce in semplice veemenza, bensì in signorile alterigia.
Un Calaf accorato e dolce quello di Antonello Palombi, che nella sua pastosa e densa zona centrale del rigo ammanta di suadente legato ogni nota dello spartito, per poi sfoggiare in acuto le nobili note del trionfo e dell’esultanza con naturalezza, senza mai eccedere in un canto spinto o di forza. Degna di nota l’aria del primo atto Non piangere Liù dove la tavolozza dei colori si manifesta in una miriade di sfumature.
Sicura e precisa anche la Liù di Francesca Sassu, talvolta un po’ troppo pregnante nel suono, ma comunque artefice di una prova più che dignitosa.
Di lusso il trio delle maschere, che vede rispettivamente nei ruoli di Ping, Pong e Pang, Sergio Vitale, Orlando Polidoro e Pietro Picone, precisi negli interventi, amalgamati nei momenti di assieme. La voce baritonale di Vitale trova grazia e stile nella bella pagina del secondo atto, mentre i due tenori riescono a essere pungenti nella giusta misura.
Egregio il Timur di Alessandro Abis che, sebbene dotato di un timbro piuttosto chiaro per il ruolo, risulta musicalmente ineccepibile per intonazione e fraseggio.
Nobili e alteri al punto giusto Bruno Lazzaretti (Altoum) e Nicolò Ceriani (un Mandarino). Completavano il cast Andrea Taboga (il Principe di Persia), Rosa Guarracino e Marie-Luce Erard (le Ancelle di Turandot).
Bello il colore del Coro (diretto dal M° Alberto Malazzi), pur non esente da qualche scollamento con la buca, né da alcune incertezze negli attacchi, specie nel primo atto.
Il pubblico compiaciuto dispensa a tutti il proprio plauso, anche se non manca qualche “bercio” non proprio oxfordiano verso i responsabili della messinscena.

Crediti fotografici: Andrea Ranzi e Rocco Casaluci per il Teatro Comunale di Bologna
Nella miniatura in alto: la protagonista Ana Lucrecia Garcìa (Turandot)






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